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Le 25 ore di Grillo

Michele Magno

Il garante del M5s rilancia sulla settimana corta. Il mito e l’incubo della fine del lavoro, storia ottocentesca che rivive in versione 2.0

Scomparso misteriosamente nel programma dei pentastellati dopo una martellante campagna pubblicitaria, è stato rilanciato a sorpresa da Beppe Grillo. Parliamo dello slogan “lavorare meno, lavorare tutti”, votato a furor di popolo sulla piattaforma Rousseau. “Le nostre città – ha scritto sul suo blog – sono costruite per ospitare un popolo di formiche operaie, ma la metà (se non tutti) dei cosiddetti lavori manuali ripetitivi e quelli da scrivania, o comunque a bassa creatività, possono essere sostituiti già oggi con la tecnologia”. Conclusione: una settimana lavorativa di 25 ore basta e avanza per fronteggiare la disoccupazione tecnologica. Un coup de théâtre arrivato all’indomani dell’accordo siglato dall’Ig Metall nel Baden-Württemberg, il quale prevede la settimana facoltativa di 28 ore, per un massimo di due anni e con paga inferiore, per la cura dei famigliari. Siamo quindi in un mondo lontano da quello vagheggiato dal comico genovese. Il postulato della sua proposta, infatti, è l’ineluttabile tramonto del lavoro umano, indotto dell’automazione integrale dei processi produttivi. In questo quadro, orario di lavoro ridotto e reddito di cittadinanza fungono sia da ammortizzatori sociali universali, sia da “sussidio” all’innovazione. Per dirla con Paul Mason, se non ho più l’obbligo morale di far lavorare le persone, posso spingere il progresso tecnologico fino alla sua ultima frontiera (Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, il Saggiatore, 2016).

      

Sociologi ed economisti si sono ingegnati a descrivere la terra promessa del non-lavoro gratificante (finanziato dai contribuenti)

Niente di nuovo sotto il sole. La fine del lavoro è un vecchio refrain, tornato in auge nel passaggio di secolo. Di fronte alla disoccupazione di massa, sociologi ed economisti si sono ingegnati a descrivere la terra promessa del non-lavoro gratificante (finanziato dai contribuenti). Il lavoro non c’è più, sventura. Il lavoro non c’è più, evviva. La verità, pervicacemente contestata da tutti i neoluddisti del Terzo millennio, è che ogni rivoluzione industriale comporta la nascita di lavori nuovi e, parallelamente, la scomparsa di vecchi mestieri. Ce ne offre un lucido ritratto – celebrato da Marx – il romanzo I due poeti, con cui Balzac apre il ciclo delle Illusioni perdute (1837-1843): “All’epoca in cui comincia questa storia – scrive – la macchina di Stanhope e i rulli inchiostratori non erano ancora entrati nelle piccole stamperie di provincia”. Nella tipografia descritta nelle prime pagine del romanzo sopravvivono perciò “Orsi” e “Scimmie”, cioè i torcolieri che si muovono tra le tavolette su cui è disteso l’inchiostro e il torchio, e i compositori, che fanno una “ininterrotta ginnastica [...] per prendere i caratteri nei centocinquantadue cassettini in cui sono contenuti”. Tutte figure professionali e mansioni destinate a scomparire, poiché le loro funzioni sarebbero state svolte da macchine: il torchio a vapore, la rotativa, la linotype.

 

Lo stesso vale per la rivoluzione informatica in corso. Basti citare un esempio emblematico: il Mechanical Turk di Amazon, che prende il nome dal celebre fantoccio meccanico creato da Wolfgang von Kempelen per Maria Teresa d’Austria (1769); un finto automa in grado di giocare a scacchi, all’interno del quale si celava un campione dal fisico minuscolo che ne manovrava le mosse. Si tratta di una piattaforma di “crowdworking” (da crowd, folla, e working, lavoro), in grado di connettere chi offre lavoro con un esercito di consulenti, disponibile giorno e notte, sette giorni su sette. Non è difficile cogliere in questo portale un taylorismo sui generis: ogni ordine inviato online mobilita i dipendenti impiegati nei magazzini in percorsi lunghi chilometri, con assegnazione di compiti parcellizzati, gestiti e monitorati grazie alla rete e a modelli di businnes che poggiano su una ferrea divisione del lavoro.

 

Negli anni Ottanta comincia a fiorire una vasta letteratura sul declino irreversibile del lavoro salariato nella società industriale

Ma torniamo al punto da cui siamo partiti. Nel 1889 Henri Bergson, nel Saggio sui dati immediati della coscienza, contrappone al tempo oggettivo, quello del calendario, il tempo soggettivo, quello dell’anima, come lo aveva chiamato sant’Agostino. Nello stesso anno la Prima Internazionale rivendica al congresso di Parigi l’introduzione per legge della giornata lavorativa di otto ore. Sia il filosofo francese che il movimento operaio, sebbene da prospettive molto diverse, erano tormentati dalla nascente civiltà della tecnica. Con la produzione di massa, infatti, l’orologio diventa l’arbitro della disciplina di fabbrica e dell’organizzazione sociale. L’antica separazione tra tempo sacro e tempo profano viene meno, e si ripresenta come rapporto tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Rapporto espresso dallo storico motto “Otto ore di lavoro, otto ore di istruzione, otto ore di riposo”, coniato dalle Trade Unions nell’assemblea costitutiva del 1869. Slogan a cui si ispira la lunga marcia delle associazioni del proletariato verso la regolamentazione dell’orario di lavoro. Essa inizia nella prima metà dell’Ottocento, con la rivendicazione delle dieci ore per tutti, bandiera – insieme al suffragio universale e alla riforma agraria – dei cartisti inglesi, fino alle otto ore conquistate dai minatori americani nel 1896. Una marcia criticata aspramente da Ferdinand Lassalle, il più popolare dei socialisti tedeschi dell’epoca, il quale predicava l’inutilità delle lotte sindacali per il miglioramento della condizione operaia senza la conquista del potere statale. Più tardi, György Lukács sosterrà perfino che meno orario e più salario servivano solo a rendere lo “sfruttato” un consumatore più affidabile per i capitalisti.

 

Dopo i traguardi delle 48 ore settimanali negli anni Venti, delle 40 negli anni Sessanta e delle 36 (o 35) negli anni Novanta del Novecento, quello che sembrava un cammino inarrestabile (Keynes aveva preconizzato addirittura una giornata lavorativa di tre ore), si interrompe bruscamente. L’inversione di tendenza si manifesta quando, siamo nel 2004, le maestranze di Siemens, Bosch, Daimler-Chrysler e Opel accettano di prolungare l’orario di lavoro a parità di retribuzione, in seguito alla minaccia di delocalizzare parte degli impianti nei paesi dell’est. Si è assai dibattuto sulle ragioni di questo stop. Ha sicuramente pesato l’allungamento della speranza di vita, che si è venuto incrociando con il calo del tempo di lavoro. Non è facile, anche per le economie più sviluppate, reggere le opposte dinamiche di una durata del lavoro che diminuisce e di una durata della vita che aumenta. I venti più ostili alla riduzione degli orari provengono però da altri lidi, anzitutto dalla comparazione tra i tassi di crescita statunitensi e quelli europei.

 

La produzione di massa e il motto “Otto ore di lavoro, otto ore di istruzione, otto ore di riposo” coniato dalle Trade Unions nel 1869

Come dimostrano i dati dell’Ocse, gli americani sono più produttivi e insieme più sgobboni. Producono cioè di più anche perché lavorano di più. In altri termini, non è soltanto una questione di produttività, ma di orari. Secondo un’opinione assai di moda, il maggior lavoro degli americani sta alla base del loro alto tenore di vita. Pure, occorrerebbe chiedersi se è il superlavoro che spiega il tenore di vita, o non è piuttosto il tenore di vita che spiega il superlavoro. Se poi guardiamo all’Italia, il fallimento del disegno di legge sulle 35 ore (1998) dovrebbe suggerire qualche riflessione. Infatti, come Fausto Bertinotti ieri, Grillo oggi sembra cadere nello stesso errore: quello di una visione ottocentesca del mercato del lavoro, come se fosse spaccato a metà tra occupati e disoccupati. Mentre da noi resta forte il dualismo tra lavoro regolare e lavoro nero. Ben nota, inoltre, è l’ampiezza del lavoro precario e del fenomeno dei working poors, ossia sulla soglia della povertà, In questo contesto, la tendenza dominante è quella dell’allungamento della giornata lavorativa sociale, costituita dalla somma dei regimi d’orario vigenti in tutte le articolazioni del sistema produttivo e dei servizi. Tendenza a cui spesso non sfugge nemmeno lo stesso settore centrale della manodopera, laddove esiste un divario tra orari contrattuali e orari di fatto.

 

Questa realtà, fatta di molto lavoro mal compensato e tutelato, non può essere esorcizzata con la bacchetta magica agitata dal garante del M5s. Forse i meno giovani hanno visto il film Mi manda Picone. Girato nel 1982 da Nanni Loy, uno dei maestri della commedia all’italiana, racconta la frenetica ma vana ricerca di un operaio delle acciaierie di Bagnoli, scomparso in ambulanza dopo essersi dato fuoco davanti al consiglio comunale. Lo spettatore scopre lentamente, attraverso un viaggio tra i misteri di una Napoli che è la trasparente metafora dei nostri vizi nazionali, che quell’operaio faceva mille mestieri diversi e aveva molte vite differenti. In altre parole, la sua identità sociale non era chiaramente definita, ma era ambigua e sfuggente, quasi inafferrabile.

 

La sensibilità artistica di Loy aveva colto perfettamente la mutata percezione del lavoro di fabbrica, ormai vissuto come un ripiego e non più come motivo di orgoglio. Dopo un decennio di battaglie che ne avevano celebrato la centralità, all’inizio degli anni Ottanta la classe operaia sembrava sulla via di uno storico arretramento. Come già era stato intuito dai vignettisti di Cipputi, la tuta blu sfidata dalla modernità, e di Gasparazzo, il proletario disincantato e scansafatiche. E’ allora che comincia a fiorire una vasta letteratura sul declino irreversibile del lavoro salariato nella società industriale. L’aveva pronosticato lo studioso marxista Harry Braverman, studiando gli effetti della meccanizzazione negli Stati Uniti (Labour and Monopoly Capital, 1974). Nel 1980 André Gorz, davanti alla disoccupazione in salita e agli orari in discesa, decretava addirittura la sparizione della società dei salariati (Adieux au prolétariat). Tornano in auge le riflessioni di Hannah Arendt sull’homo laborans (che agisce nella sfera della necessità), sull’homo faber (che agisce nella sfera della produzione), sull’homo politicus (che agisce nella sfera della libertà) [Vita Activa,1958].

 

Non è facile reggere le opposte dinamiche di una durata del lavoro che diminuisce e di una durata della vita che aumenta

Non senza una discutibile manipolazione del pensiero della filosofa tedesca, dall’esaltazione del “lavoro liberato” all’esaltazione dell’ozio creativo il passo è breve. Poiché non esiste alcuna possibilità di opporsi alla frantumazione del lavoro che si consuma nel passaggio dal fordismo al postfordismo, l’unica risposta plausibile diventa così la creazione di una nuova cittadinanza basata sui princìpi del “minimo vitale” e della “decrescita felice”. La fine del lavoro, insomma, partorisce miracolosamente una nuova cittadinanza, che trova in se stessa le sue radici e la sua giustificazione. Non fortuitamente uno dei guru dei pentastellati è quel Jeremy Rifkin che, vedendo la mano del demonio nelle tecnologie mangiaposti, aveva annunciato l’avvento dell’era post mercato come una sorta di Eden delle attività gratificanti (La fine del lavoro,1995), ribattezzato poi da Ulrich Beck come etica dell’impegno civile (Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, 2000). Ma che cosa sia l’attività non era chiaro allora e non è chiaro adesso. L’attività non è un lavoro: piace perché sembra libera e perché non è mercificata. Chi è interessato a svolgere le attività di cura che il volontariato offre nei settori non coperti o malamente coperti dallo stato sociale, i nostalgici dell’economia natural-conviviale dovrebbero saperlo, non si iscrive ai centri per l’impiego. Se lo fa, vuol dire che intende queste attività come un lavoro, quali esse effettivamente sono per chi si aspetta un corrispettivo monetario.

 

Nonostante nessuno neghi che la disoccupazione si combatte anzitutto creando nuovo lavoro, l’idea che la redistribuzione di quello che c’è possa almeno alleviarla conferisce attrattiva alle suggestioni di chi propone di accorciarne la durata. Due sono le soluzioni, semplici e intuitive. La prima, facilona, è del tipo: un’ora in meno la settimana-un milione di posti in più. La seconda, spaccona, è del tipo: ridurre le ore al minimo per liberare il lavoro e riprendersi la vita. Con una evidente forzatura, il contratto pilota del Baden-Württemberg è stato letto proprio come la prova di una necessità storica, che vuole le sfere del lavoro e della vita fungibili e interscambiabili: era un obiettivo dell’umanesismo industrialista, e paradossalmente fu la società sovietica ad imporlo. Per fortuna è solo una chimera, perché lavoro e vita hanno logiche e culture diverse. E poi, come ha osservato Aris Accornero, l’alienazione non è la separatezza bensì la sovrapposizione fra il lavoro e la vita: le donne soffrono la sovrapposizione, non la separatezza. L’esistenza ricca è quella che combina i loro tempi e i loro ambiti, mentre la giustapposizione è un mito: un mito da scongiurare.

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