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Spread giù, ottimismo su. Perché all'estero si parla dell'Italia senza isterismo

Claudio Cerasa

Tendiamo a dare molto peso alla percezione e tendiamo a dare molto poco peso alla realtà

A due giorni dalle elezioni politiche, si può dire senza paura di essere smentiti che il vero clima impazzito, in Italia, non è quello fotografato dagli appassionati di meteo ma è quello immortalato negli scatti finali di questa campagna elettorale, dove buona parte degli italiani arriva al voto senza avere la minima idea di come stia oggi il nostro paese. La meccanica la conoscete. Tendiamo a essere super informati sul micro, su tutte le ingiustizie quotidiane che colpiscono alcuni cittadini del nostro paese, mentre tendiamo a non essere informati sul macro, ovvero su come va l’economia, su come va l’occupazione, su come va la disoccupazione, su come va la crescita, su come vanno gli sbarchi, su come vanno le esportazioni. Tendiamo a dare molto peso alla percezione e tendiamo a dare molto poco peso alla realtà. E la somma di tutti questi fattori ci fa vivere in una grande bolla all’interno della quale, grazie a un paese dove le uniche notizie degne di nota sono quelle negative, giorno dopo giorno sembra esserci un’unica grande sinfonia, un unico grande concerto, il cui spartito verrebbe facilmente decodificato dai sociologi con un’espressione nota: la self-fulfilling prophecy.

     

In sociologia, una profezia che si autodetermina è una previsione che si realizza per il solo fatto di essere stata espressa e chi conosce le scienze sociali sa che di solito la predizione e l’evento sono in un rapporto circolare: la predizione genera l’evento e l’evento verifica la predizione. In questo senso, in Italia, la narrazione catastrofista di un paese sempre più in salute descritto come se fosse ogni giorno con un piede sempre più vicino al baratro sta contribuendo da tempo a rendere fertile il terreno politico su cui cresce il seme populista. E più ci si avvicina al voto più si tende a considerare molto probabile quello che matematicamente è quasi impossibile: un governo populista. Un paese che tende a guardare se stesso con uno sguardo negativo – e che tende a non raccontare la diminuzione degli sbarchi (a febbraio 2018 -88 per cento), l’aumento dell’occupazione (+ 25 mila rispetto a dicembre), la diminuzione della disoccupazione giovanile (-1,2 per cento, tasso più basso dal 2011), il leggero calo del rapporto debito/pil (-0,5 nel 2017), il leggero aumento del pil (più 1,5, record dal 2010), il calo della pressione fiscale (-0,3) – è un paese che involontariamente (involontariamente?) tende a lavorare per far sì che la profezia dell’apocalisse possa avverarsi.

 

E arrivati a questo punto della campagna elettorale viene quasi naturale chiedersi perché – come ha notato ieri il principale quotidiano economico tedesco, Handelsblatt – fuori dall’Italia oggi osservano l’Italia con molto meno isterismo rispetto a come l’Italia osserva se stessa. I dati che fotografano meglio l’ottimismo sul nostro paese (almeno fuori dall’Italia) riguardano un indice osservato sempre con interesse quando le cose vanno male e osservato sempre con meno interesse quando le cose invece vanno bene. Ricordate lo spread? A tre giorni dalle elezioni la non paura sul sistema Italia – nonostante la prevalenza dell’apocalittico collettivo – è ben misurata dal differenziale tra titoli di stato italiani e tedeschi, che piuttosto che salire continua a scendere in modo più o meno costante dall’inizio dell’anno (siamo a 135 punti base).

 

C’entra ovviamente la consapevolezza che l’Italia ha un ombrello ancora aperto di nome Qe. C’entra ovviamente la consapevolezza che il prossimo esecutivo ha dei vincoli europei che renderanno impossibili le politiche della follia (entro il 10 aprile c’è un Def da firmare e da presentare il 30 a Bruxelles). C’entra ovviamente la consapevolezza che in caso di governi con pulsioni antieuropeiste ci sarà il santo spread a indicare la giusta strada da percorrere (secondo Bloomberg, in caso di un governo a guida grillina lo spread aumenterebbe del 100 per cento). Ma c’entra anche una doppia consapevolezza per molti inconfessabile, soprattutto nel nostro paese: l’Italia oggi, anche se ha ancora molti problemi, è più forte di quello che sembra e anche per questo puntare sulla distruzione del sistema Italia, come provò a fare qualcuno nel 2016, non è una scommessa che rende.

 

Chi osserva il nostro paese con il portafoglio suggerisce insomma di non scommettere sullo sfascio. Ma un paese dove lo sfascio è sempre una notizia e il non sfascio non è mai una notizia è un paese che involontariamente (involontariamente?) tende a lavorare per far sì che la profezia dell’apocalisse possa avverarsi. Domanda: sicuri che ne valga la pena?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.