B.B. King (foto LaPresse)

B.B. King, l'ambasciatore del blues

Stefano Pistolini

Le origini umili a Indianola, il duetto con Barack Obama, la morte a Las Vegas. Perché una morbida voce del passato è diventata storia. Se n'è andato l'ultimo reduce d’una musica che ha il destino di essere nel contempo storia e spettacolo, passato e presente, ricordo e promessa di seduzione.

Se n'è andato B.B. King, ultimo reduce d’una musica che ha il destino di essere nel contempo storia e spettacolo, passato e presente, ricordo e promessa di seduzione: il blues, il suono che non chiarisce mai se la sua genesi, in fondo, appartiene a Dio o al diavolo. La vicenda personale di Blues Boy King e delle sue umilissime origini a Indianola, nel più profondo sud del Mississippi, costituisce uno dei basilari anelli di congiunzione tra la cultura popolare moderna e una certa vecchia America, di cui il ricordo che è piacevole portar dietro dev’essere parecchio circoscritto. Anche per questo motivo Barack Obama – nel momento della sistemazione (e solo in un secondo momento della pacificazione) della questione razziale tra bianchi e afroamericani – lo volle solennemente al proprio fianco alla Casa Bianca, durante gli appuntamenti dedicati alla dignificazione della black music, in un esplicito gesto di condivisione, culminato nell’istante in cui il presidente è salito sul palco a fianco del bluesman, per intonare l’inno “Sweet Home Chicago”. King testimoniava una condizione che era stata drammaticamente autentica e che, nei casi migliori, solo lo spirito sacrificale e le tecniche di sopportazione dei neri avevano sublimato nella forma d'arte del blues, reificazione estetica del coesistere con la conspevolezza del dolore – scegliendo, nonostante tutto, di vivere. E decidendo di cantare.

 

Com'è capitato più volte, all'avvento delle battaglie per le cause civili e nel momento in cui si è posta sul tavolo la questione afroamericana, sono stati principalmente i bianchi (e in primo luogo gli artisti bianchi) a legittimare B.B. King, la sua arte e la sua rappresentatività. Eric Clapton, Mike Bloomfield, Leon Russell, l’aristocrazia pallida del blues si è genuflessa di fronte alla sua icona e alla sua chitarra, indicandolo come grande padre, santificandolo come simbolo anche aldilà dei suoi effettivi meriti artistici (che erano essenzialmente un raffinato gioco di ripetizione di uno standard pre-esistente), per ciò che il suo corpo, la sua voce e il suo suono sapevano descrivere. Se il rock aspirava a proporsi come musica della liberazione, la sua madre naturale doveva essere un'entità limpida, in cui ispirazione, onestà, sacrificio e volontà confluissero assumendo bellezza ed emotività. E in B.B. King, grazie all'eccezionale fattore sentimentale della sua musica in cui passione, dolcezza e ironia prevalevano sulla rabbia e la rivendicazione, il pubblico e questi artisti in odore di progressismo identificarono colui che Clapton definì con assolutezza: il maestro.

 

King ha sempre accettato con la compostezza del consumato uomo di spettacolo questo ruolo di preminenza, moderandolo con la modestia che gli era naturale, consapevole che era il fortunato destino della sua carriera – quello del traghettatore, in sostanza – e che sarebbe stato insensato rifiutarne le insegne. Così facendo ha vestito i panni dell'ambasciatore del blues, nella sua nazione e in tutto il mondo, sovente presso platee turistiche, fino al definitivo approdo nella città-emblema della banalizzazione, Las Vegas, dove risiedeva e dove è morto in pace, ieri, all’età di 89 anni.

 

Ma c'è qualcos'altro che va ricordato di lui, meno evidente, meno appariscente nella versione semplificata e bandistica del blues che per gli ultimi 30 anni di carriera King si è docilmente prestato a portare nel mondo. E’ un fattore più intimo, di cui parlava solo con chi fosse familiare alla materia organica di quella musica che, dopo averne appreso i rudimenti da uno zio, lo sottrasse a una vita di stenti, nelle spelonche degli agricoltori sul delta del grande fiume. Il vero oggetto della sua passione, su cui si arrovellava e si dilungava (a questo proposito la visione di “The life of Riley”, splendida biografia della Bbc è consigliatissima) è la questione dello stile.

 

Lo stile è tutto per un bluesman, che vive del riuso all’infinito di uno schema musicale elementare e apparentemente accessibile a chiunque. Dunque a contare non è il cosa, ma il come. Il messaggio non sta nelle sbadate liriche di un blues che parlano di quante spine sarà cosparsa la giornata di chi canta, ma nel modo in cui ciò viene detto. La bravura, l'eccezionalità, la leggenda di un bluesman risiedono nel saperlo fare come nessun altro, nel mostrarsi inimitabile, nel farsi contemplare in una forma a cui è impossibile accedere con la stessa maestria. Questo è il cuore caldo del blues, musica di forma prima che di contenuto, musica estetica e per questo decadente, ben più che musica di lotta e protesta, come seppe esser solo in alcune particolari declinazioni urbane. Nella definizione del suo stile, nel suo rapporto coi modelli (T-Bone Walker e Blind Lemon Jefferson, prima di tutto), nella progressiva, ispirata messa a punto di una personalità artistica fatta di dolcezza e di guizzi, di ammiccamenti e di crescendo, fatta soprattutto di malinconia e turbamento, B.B. King legittima la sua preminenza nella genalogia del blues. La sua era una morbida voce del passato che si prestava a risuonare in un presente diverso, era la musicalità della memoria, era il perdono. Era il ceppo buono e anche istrionico del blues. Tra tante ingiustizie, tra drammi e orrori, la storia degli afroamericani, e con lei quella della loro musica, è sopravvissuta, è andata avanti, ha conosciuto il riscatto. L'uomo di Indianola ha incarnato la riappacificazione, e lo ha fatto con nobiltà e poesia. Il mondo della musica, presto, si è reso conto di non potere fare a meno di lui.

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