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Perché lo svenimento di Wall Street è una sveglia per i governi

Alberto Brambilla

Anche gli stati dovranno pensare a emanciparsi dal “denaro facile” delle banche centrali e continuare le riforme

Roma. I listini mondiali sono saliti di mezzo punto percentuale ieri nel tentativo di recuperare dopo lo svenimento di Wall Street, reduce dalla peggiore settimana negli ultimi due anni. Analisti e commentatori hanno cercato il “colpevole” della correzione di Borsa che arriva dopo il più lungo periodo rialzista nella storia, iniziato nel 2009, e hanno valutato diversi indiziati: gli aumenti delle retribuzioni in America e le rivendicazioni salariali in Germania; la pervasività del trading automatico nelle contrattazioni di Borsa che accentua i ribassi; il rischio che la riforma fiscale in deficit dell’Amministrazione Trump aumenterà il debito degli Stati Uniti sopra il 100 per cento in rapporto al pil impattando sull’economia nel prossimo biennio; il cambio alla guida della Federal Reserve con l’inizio del mandato di Jerome Powell (musica per i professionisti dell’apocalisse imminente: il capo della Banca del Reich nel 1923 non era un economista, ma un avvocato).

 

Un punto sul quale tutte le analisi convergono per spiegare la correzione c’è la generale presa di coscienza, manifestata dal tonfo dei listini, che dopo un decennio di politiche monetarie ultra-accomodanti da parte delle principali banche centrali si andrà verso un rialzo dei tassi, certo graduale, ma inevitabile mano a mano che il tasso di inflazione si avvicina al target del 2 per cento. Dove il target è superato, in America e nel Regno Unito, è in programma una stretta più rapida rispetto a Europa e Giappone, dove la stretta avverrà nel giro di due anni almeno. Secondo alcuni operatori, il cambio di postura delle Banche centrali guiderà l’umore dei mercati. Quello della settimana scorsa è solo il “primo dosso sulla strada” che conduce a un periodo di “mercato Orso”, ha detto Michele Gesualdi di Kairos Investment alla Cnbc.

 

Anche Bob Prince il direttore generale del più grande hedge fund del mondo, Bridgewater – ultimamente noto per le sue scommesse al ribasso sui titoli italiani in vista delle elezioni –, vede “probabili scossoni in arrivo”. D’altronde c’è una correlazione netta tra politiche monetarie di sostegno all’economia, il Quantitative easing, e la liquidità circolante nei mercati finanziari ed è logico che una stretta possa invertire la tendenza. Dopodiché la correzione di Borsa – che ha solo parzialmente toccato il listino italiano, unico in Europa a non avere cancellato i guadagni da inizio anno – dovrebbe fare da sveglia ai governi. Dal Fiscal Forum di Dubai il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, ha detto di non essere preoccupata dalla volatilità perché “ragionevolmente ottimista per il panorama odierno. Ma non possiamo rilassarci aspettando che la crescita continui normalmente”. La normalizzazione all’insù dei tassi rappresenta infatti una discontinuità rilevante dopo anni in cui il “denaro facile” è stato una anomala normalità per uscire dalla crisi finanziaria ed economica da entrambe le sponde dell’Atlantico. La Banca centrale europea avvierà la stretta molto dopo la fine del programma di Qe, a fine 2019 o oltre, ma una politica restrittiva significherà maggiori costi di finanziamento del debito e, in parallelo, l’assenza di una stampella fondamentale, qual è stato l’allentamento monetario, per continuare riforme strutturali.

 

Per l’Italia che ha il secondo rapporto debito/pil più alto d’Europa, dopo la Grecia, e terzo al mondo, dopo il Giappone, l’inversione della politica monetaria è critica. Mentre in campagna elettorale c’è la volontà generale dei partiti di aumentare il deficit, da ieri i contatori del debito pubblico dell’Istituto Bruno Leoni proiettati sui mega-schermi delle delle stazioni di Milano e Roma ricordano appunto che le promesse elettorali appesantiscono il fardello. Come descritto nel volume “Un futuro da costruire bene” curato da Mario Deaglio (Guerini e Associati) i benefici della “cura Draghi” per le finanze pubbliche e gli effetti sul rapporto debito/pil sono evidenti: acquistando titoli pubblici con scadenze sempre più brevi la Bce ha permesso all’Italia il “doppio vantaggio” di coprire il suo fabbisogno annuale (47 miliardi nel 2016) e abbassare l’onere futuro di tutto il debito rifinanziato, una spesa notevole, durante gli anni del Qe. Inoltre, soprattutto grazie al sostegno della Bce “il pil nominale italiano ha preso a muoversi per la prima volta da molti anni a un tasso maggiore di quello del debito pubblico, il che significa che dal 2017 il rapporto debito/pil dell’Italia non solo non cresce più, ma è in, sia pur lieve, diminuzione”. In altri termini, per come l’ha messa Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, al convegno Assiom Forex sabato scorso, il settore privato può reggere l’impatto di un aumento dei tassi, che sarà graduale, ma senza la Bce il finanziamento sui mercati sarà in capo ai governi. “L’impatto del rialzo dei tassi sarà tanto minore quanto più sarà contenuto il premio per il rischio sui titoli pubblici italiani e quanto più la crescita della nostra economia sarà in linea con quella del resto dell’area – quindi dice Visco – Non è della normalizzazione della politica monetaria che ci si deve preoccupare, ma della credibilità dell’efficacia delle riforme e del processo di riduzione dell’incidenza del debito sul prodotto”. Il messaggio è che invece di promettere rapidi e quindi incredibili piani di taglio del debito oppure default parziali – come da ultimo azzardato dal Movimento 5 stelle invocando una ristrutturazione del debito, con una specie di meccanismo di monetizzazione in carico alla Bce – è preferibile una riduzione di pochi punti percentuali purché sia costante nel tempo. D’altronde è lo stesso Fiscal Compact a prescrivere una riduzione del rapporto debito/pil di un ventesimo all’anno per la parte eccedente il limite del 60 per cento, in pratica del 3-3,5 per cento l’anno. Meglio pensare a cosa fare ogni giorno invece di nascondersi dietro a piani mirabolanti e perciò discutibili. E se mai arriverà un’altra crisi stregoni ed estremisti non sono i migliori capitani nella tempesta.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.