Foto LaPresse

Flauti e isole utopiche. Ecco l'ottimismo di Björk, nonostante Trump

Stefano Pistolini

"Utopia" e lo splendore strumentale di un bosco perfetto

Björk ha avuto una semplice idea e ora ce la dice: think positive. E’ sempre interessante quando uno spunto minimo acquisisce spessore e impatto, grazie alle circostanze in cui è pronunciato. E’ il caso di “Utopia”, decimo album di studio dell’artista islandese, che esce in coincidenza col suo cinquantaduesimo compleanno. In controtendenza con quanto aveva fatto in “Vulnicura”, nel quale ripercorreva il commiato sentimentale da Matthew Barney, l’artista americano di cui era stata compagna e musa (e con cui aveva concepito Isadora, la figlia oggi quindicenne), Björk qui elabora una vera strategia di riemersione esistenziale, basata sulla visione ottimistica della vita, piena di animismo e di scie mistiche raccolte nelle esperienze creative in cui di recente s’è lasciata coinvolgere. Così Björk indossa una bellissima maschera creata per lei da James Merry (altro artista di pregio, specializzato in ricami visionari, inglese trapiantato in Islanda, attuale partner totale di Björk nonché direttore artistico dei suoi video) che rappresenta un grande organo sessuale femminile e parte all’esplorazione delle possibili utopie, ovvero di quelle super-felicità tanto estranee alla nostra vita di compromessi e di tutto ciò che potremmo essere, se solo le cose fossero andate in modo diverso. Il risultato è affascinante e lussureggiante: “Utopia” risuona d’uno splendore strumentale che evoca una onirica passeggiata nel bosco perfetto, coi suoni che di continuo si modificano dinamicamente, con arpe a flauti a condurre le danze, in una sensazione non bucolica ma piuttosto futuribile, com’è naturale attendersi da Björk. Il canto degli uccelli – uccelli mai sentiti, ma tutti autentici, garantisce la stessa artista, che li ha registrati nelle radure selvagge della sua terra o che ne ha raccolto il canto da rare registrazioni sudamericane come “Hekura Yanomamo Shamanism From Southern Venezuela” – è il leit motiv del disco, così come le ricorrenze corali (le 60 voci di un ensemble islandese, incise nello chalet di campagna di Björk) o i 12-flauti-12 coi quali, lavorando ogni venerdì, lei stessa ha creato orchestrazioni straordinarie.

 

La voce di Björk entra ed esce da questo tappeto magico, a volte in primo piano, a volte intrecciata nelle armonie, strumento tra gli strumenti, in un succedersi di brani che, più che canzoni, somigliano a stanze di un poema. L’utopia di Björk, questo rinfrancante tutto nella sublime wellness, si ambienta su un’isola, magari generata da un disastro ecologico, dove la musica è sinonimo della vita che scorre. Lei stessa rivela che l’ispirazione proviene da Merry, che ha svolto ricerche sui miti legati al suono del flauto nelle culture di tutto il pianeta, dalle tribù amazzoniche alla mitologia islandese. E per dar forma musicale alla visione, Björk ha chiamato Alejandro Ghersi, in arte Arca, ventottenne produttore venezuelano del disco e manipolatore della complessa quanto impalpabile rete digitale che sorregge l’opera, nella quale la suggestione acustica della natura convive con la trascendenza di strumenti antichissimi, col beat del pianeta contemporaneo e con la voce della sublime poetessa, allorché prosaicamente annuncia (in “Tabula Rasa”) che si devono “spezzare le catene con le stronzate dei nostri padri”.

 

Perché infine, quello che la stessa Björk definisce il suo “Tinder Album” dedito all’empatia e alla festosa contemplazione (il video di “The Gate” è pura tecno-new age 2.0) piomba di colpo sul nostro umile ed empio reale: “Quando è stato eletto Trump mi sono detta che era il momento di mostrare le nostre vere intenzioni. Dal momento che il mondo non va nella direzione giusta, la cosa da fare è imparare ad arrangiarci da soli e costruire le nostre fortezze”. “Utopia” è diviso in tre parti: la scoperta dell’isola, la vita nel paradiso e poi, precipitando sulla Terra, i migliori modi per sopravvivere in un periodo difficile. E’ così che spunta il lato mondano della grande sognatrice, la stessa Björk che qualche settimana fa ha applaudito alla protesta delle donne molestate e ci ha messo del suo. Ha raccontato come sul set di “Dancer in The Dark” Lars Von Trier la perseguitasse, per sottometterla. Perché il mondo è pieno di usignoli e fiori stupefacenti, ma con gli uomini bisogna trattare senza timori. Da qualche parte c’è una gioia, ci dice Björk, se solo riuscissimo ad arrivarci. C’è una vita fatta di scoperte, brividi e agnizioni. E questo disco è il manifesto delle sue aspirazioni: tendere al bello, riempirsi di vita, ma tenendo i piedi a terra e battendosi per i propri diritti. E senza per questo farci rovinare l’incanto del panorama dattorno.

Di più su questi argomenti: