Carlo Messina, ceo di Intesa Sanpaolo, e Gaetano Miccichè, presidente di Banca IMI (foto LaPresse)

Finché la banca va

Stefano Cingolani

Quale futuro per i colossi del credito? I piani di Intesa, il ruolo di Miccichè e le voci di un suo trasferimento al vertice di Cdp

Incensate poi svillaneggiate; esaltate come onnipotenti nella lunga era del bancocentrismo, poi demonizzate; accusate dall’onda populista alla quale non è sfuggita la commissione parlamentare d’inchiesta; messe alla frusta dalla crisi del vecchio mestiere, le banche italiane sono alla ricerca di una nuova dimensione. Intervenendo in un recente convegno tenuto alla biblioteca Angelica di Roma, storica sede dell’Accademia dell’Arcadia, alcuni banchieri e studiosi di primo piano si sono chiesti come è possibile compiere il passo successivo, dalla ripresa alla crescita di lungo periodo, e quale contributo possono dare aziende tuttora cariche di crediti deteriorati, anche se il fardello si sta riducendo grazie alla migliore congiuntura economica e perché è in corso una gara a venderli il più rapidamente possibile e non sempre alle condizioni migliori. Martedì, Carlo Messina, amministratore delegato della Intesa Sanpaolo (acronimo ISP), presenterà il nuovo piano industriale e gli analisti guardano a questo appuntamento come a una cartina di tornasole, data la taglia e l’importanza del gruppo.

 

Le banche italiane stanno uscendo dalla palude dei crediti marci e affrontano una complessa ristrutturazione. Ma soprattutto imboccano una strada diversa dal passato: non più solo erogatrici di prestiti, né, come spesso accade, diventare un supermercato e nemmeno trasformarsi in meri consiglieri per ricchi clienti. La banca resta sempre “al crocicchio tra risparmio e investimento”, il luogo del loro incontro, come diceva Raffaele Mattioli, il mitico capo della Commerciale, oggi però la sfida è più complessa in particolare in Italia: chiudere la forbice tra una ricchezza, sia immobiliare sia finanziaria, notevole, della quale il paese è dotato soprattutto grazie al lavoro delle precedenti generazioni, e uno sviluppo ancora asfittico che lascia inquiete e malmostose le nuove generazioni. Vasto programma al quale non tutti sono preparati, meno che mai i partiti che si sfidano di qui al 4 marzo a suon di promesse. L’Italia cresce ancora troppo poco rispetto agli altri grandi paesi europei. Tra il 2000 e il 2017 il suo prodotto lordo è rimasto lo stesso, quello della Spagna è aumentato del 30 per cento, seguono la Francia con più 25 e la Germania con più 20.

 

 

Le banche italiane stanno uscendo dalla palude dei crediti marci e devono affrontare una complessa ristrutturazione

Dunque, l’economia italiana dovrebbe correre a perdifiato per recuperare il pil perduto e colmare la distanza, ma non può perché porta sulle spalle un debito enorme che assorbe buona parte del risparmio nazionale destinato, invece, ad impieghi produttivi. Due cifre chiave possono dare il polso della situazione. La prima è quattro milioni: sono le aziende che fatturano meno di 20 milioni di euro l’anno, tutte sotto capitalizzate e indebitate. L’altro numero, ben più impressionante e meno citato, è duecento miliardi: secondo le stime della Banca d’Italia, a tanto ammontano, in euro, i capitali dei quali l’ampia platea di imprese avrebbe bisogno per competere con le loro concorrenti europee. E’ vero, l’Italia che produce ha già fatto un miracolo, ha difeso la propria vocazione manifatturiera e resta tra le prime cinque economie industriali del pianeta. Gli ultimi dati diffusi giovedì primo febbraio, ci dicono che siamo al record da sette anni, abbiamo superato la Francia e ci avviciniamo alla Germania. “Effettivamente l’attività manifatturiera sta andando a ritmi e velocità molto, molto sostenute”, ha commentato Paolo Gentiloni, poi il capo del governo s’è lasciato andare a una battuta in romanesco: “Ao’, nun ce se crede”. Un risultato notevole, ma per restare in vetta, adesso bisogna trovare quei duecento miliardi di euro. Chi li deve mettere? Gli imprenditori naturalmente, si tratta di capitale proprio, non di prestiti, altrimenti il circuito virtuoso diventerebbe subito vizioso. Ci sono, e come trovarli?
 
E’ il compito che spetta al sistema bancario, sapendo che a fronte dell’immenso debito pubblico, c’è una ricchezza finanziaria tra le più alte, pari a quasi due volte il prodotto lordo al netto dei debiti, secondo Eurostat; si pensi che la Francia è nella media europea poco sopra il 150 per cento e la Germania è al 130 per cento. E questo senza contare terreni e case (l’80 per cento degli italiani possiede un alloggio). La Bundesbank batte da tempo su questo tasto e propone che una parte di essa venga impiegata a tagliare il debito pubblico. La banca centrale tedesca immagina una super patrimoniale, del tutto improponibile per motivi politici e alla fin fine dannosa. Tuttavia, la crescita del prodotto lordo da sola non è sufficiente e l’idea lanciata da Emma Bonino di congelare la spesa pubblica per cinque anni portando a quota 110 il rapporto tra debito e pil, è coraggiosa, ma attuabile solo da un governo di salute pubblica. Un vicolo cieco? No, una parte della ricchezza patrimoniale è in mano allo stato e potrebbe essere utilizzata in una operazione taglia-debito proposta finora solo da alcuni studiosi. I vertici di Intesa Sanpaolo credono che sia possibile: lo ha ripetuto Messina anche a Davos.
 
La banca sorta 35 anni fa dalle ceneri del Banco Ambrosiano grazie a Giovanni Bazoli (si sono aggiunte via via la Cattolica del Veneto, la Cariplo, la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Napoli, una serie di casse di risparmio fino alla fusione con il Sanpaolo nel 2007) ha connotato sempre più se stessa come il braccio finanziario che sostiene le imprese, affidando un ruolo chiave alla divisione riservata al finanziamento industriale che ha inglobato l’Imi, banca di investimento a medio termine creata niente meno che da Alberto Beneduce nel 1931, durante la grande depressione. E’ una ironia della storia che a guidarla ci sia Gaetano Miccichè la cui famiglia ha una parentela con Enrico Cuccia, il quale sposò la primogenita di Beneduce, Idea Nuova Socialista detta Idina. Il gioco delle analogie ci conduce alla borghesia siciliana di fine Ottocento: i Cuccia salirono a Roma, i Miccichè rimasero nell’isola. Entrambi i rampolli, però, finirono in banca. Enrico alla Commerciale, Gerlando, il padre di Gaetano, al Banco di Sicilia.
 
Non si può dire che Intesa si sia tirata indietro quando sono entrate in ballo le sorti del sistema industriale. Dalle Generali alla Pirelli, dall’Alitalia ai treni di Ntv, per non parlare di Telecom Italia o della catena alberghiera NH, è stata presente ovunque. Il colpo mediatico più eclatante è l’intervento alla Rizzoli Corriere della Sera, garantendo i debiti e rifinanziandoli a medio termine, ma soprattutto sostenendo l’offerta pubblica di scambio lanciata da Urbano Cairo.

Il nuovo mestiere, consolidato nel quadriennio Messina, ruota attorno a una pluralità di servizi. Niente follie finanziarie

Miccichè ha creduto nell’editore piemontese, accolto con favore anche da Bazoli il quale si era rivolto originariamente ad Andrea Bonomi che, però, non ha voluto voltare le spalle al suo amico e partner Alberto Nagel, il gran capo di Mediobanca. Ma le operazioni considerate esemplari di un percorso strategico iniziato da anni, sono quelle che riguardano Prada, Granarolo, Esaote, Sigma Tau. Grandi gruppi, storie di risanamento, di sviluppo, imprese accompagnate fino in Borsa come sta accadendo ora per Italo la cui quotazione è in dirittura d’arrivo. Da quando è apparso sempre più probabile che Claudio Costamagna e Fabio Gallia non sarebbero stati rinnovati, si è cominciato a parlare di Miccichè come dell’uomo giusto per guidare la Cassa depositi e prestiti. Da Intesa, del resto, era già arrivato Giovanni Gorno Tempini sotto la presidenza di Franco Bassanini.
 
Le voci corrono e ricorrono, la probabilità che rispondano al vero sale e scende. Ambienti politici lo danno per certo, ambienti bancari ne dubitano fortemente. La scadenza è dopo le elezioni e tutto riposa nelle mani del prossimo governo. Chissà quale, chissà quando.

Duecento miliardi: secondo le stime della Banca d’Italia, a tanto ammontano i capitali dei quali le imprese avrebbero bisogno

Una influenza importante sulla scelta finale spetta a Giuseppe Guzzetti che, con la Fondazione Cariplo, è socio rilevante di Intesa Sanpaolo e nella Cdp rappresenta le Fondazioni di origine bancaria azioniste di minoranza, ma fondamentali (senza di loro la Cassa sarebbe un’agenzia statale e dovrebbe entrare nel perimetro del debito pubblico). Dopo aver trascorso dodici anni nell’industria, Miccichè è entrato nella Banca Intesa nel 2002 chiamato da Corrado Passera, ha lavorato con il successore Enrico Cucchiani (consigliere delegato per meno di due anni), ha seguito con grande rispetto l’uscita morbida del fondatore, Giovanni Bazoli, e adesso affronta anche lui un cambiamento importante insieme alla generazione di quarantenni che hanno preso le redini operative. Finora l’Imi ha fatto come Mr. Wolf, il ripulitore che arriva e sistema le cose, offrendo non solo aiuto finanziario alle imprese in difficoltà, ma entrando nel capitale con una quota di minoranza e un posto in consiglio di amministrazione.
 
E’ il modello seguito anche alla Rcs dove Miccichè è consigliere. Tuttavia, questo schema non è più proponibile. Le nuove regole europee, infatti, impongono che per ogni euro impiegato in simili operazioni la banca ne debba accantonare una percentuale tanto più alta quanto più è elevato il rischio. Una spirale ingestibile. Dunque, occorre cambiare spalla al fucile, pur puntando allo stesso bersaglio: la crescita e il consolidamento delle imprese. Questo passaggio e’ affidato a una nuova leva di quarantenni: in particolare Mauro Miccillo alla guida della divisione Corporate e investment banking e Stefano Barrese alla Banca dei Territori. Italiana da cima a fondo, un capitale aperto alle grandi istituzioni finanziarie internazionali e una continua proiezione in Asia, in America oltre che in Europa, per sostenere la propria clientela, la Intesa Sanpaolo non cerca (dopo il mancato fidanzamento con le Assicurazioni Generali) grandi matrimoni (la fusione con Société Générale resta una ipotesi avanzata da Mediobanca).
 
“Siamo la banca dell’economia reale” ripetono con orgoglio i manager. Gli analisti si aspettano che Intesa Sanpaolo continui a fare profitti e a girarli pro quota ai propri soci. Dal 2014 ha distribuito 6,6 miliardi di euro e Messina ha confermato un dividendo di 3,4 miliardi per il 2017. “Ci attendiamo che prosegua, in termini percentuali anche se non in cifra assoluta”, spiegano Azzurra Guelfi e Borja Ramirez Segura di Citi Research, secondo i quali la banca di sta allenando “per vincere la maratona”. La stessa continuità dovrebbe riguardare la solidità patrimoniale oggi tra le più alte. Cominciano questo mese i nuovi stress test della Banca centrale europea che daranno il loro responso a novembre. Due anni fa Intesa Sanpaolo era risultata la migliore tra le banche italiane anche nello scenario più avverso e i vertici non vogliono certo perdere il primato, anche perché, sottolinea Alberto Cordara di Bank of America Merrill Lynch, ha il miglior trend positivo.

Gli analisti si aspettano che Intesa continui a fare profitti e a girarli ai propri soci. Dal 2014 ha distribuito 6,6 miliardi di euro

Chi detiene azioni ISP e vuole intascare lauti dividendi (in prima fila ci sono le fondazioni bancarie che rappresentano ancora il nocciolo duro del capitale), è molto attento alla riduzione dei costi, al peso del debito sovrano e alle sofferenze. Un accordo sindacale per novemila esuberi è stato firmato nell’autunno scorso. I titoli di stato nel portafoglio del gruppo si sono ridotti a 81 miliardi di euro, mentre sulle sofferenze (35 miliardi di euro) la banca sta considerando “opzioni strategiche”. L’agenzia Bloomberg ha scritto, non smentita, che è in corso un negoziato con la società svedese Intrum per una larga porzione di non performing loans (una decina di miliardi di euro). Si tratterebbe in realtà di cedere il 51 per cento di Capital Light Bank, la società nata per gestire in casa il recupero dei crediti in sofferenza. Il ricavo viene calcolato tra i 500 e gli 800 milioni che serviranno a compensare in parte la perdita che sarebbe emersa in bilancio per la cessione degli npl al 25-30 per cento del valore nominale. Di tutto questo si discuterà quando se ne saprà di più. Gli analisti seguono con attenzione i cambiamenti strategici. Al primo posto c’è la gestione delle attività su cui la banca ha scommesso negli ultimi anni raccogliendone i frutti. Le commissioni rappresentano il 52 per cento del risultato netto, ciò vuol dire che sono la principale fonte di guadagno, anzi il vero core business. E ora s’aggiungono i 2,2 milioni di clienti ereditati dalle due banche venete acquisite per un simbolico euro che, dopo aver fatto tremare le vene ai polsi, si rivelano un ottimo affare.
 
Il nuovo mestiere, consolidato nel quadriennio Messina, ruota attorno a una pluralità di servizi: spiccano le assicurazioni (nella compagnia Vita) e in generale la gestione di quella ricchezza che da immobile va trasformata in mobile, di quel risparmio che, fatto uscire dai materassi, diventa investimenti, con tanto di assistenza professionale fornita alle aziende che vogliono crescere sulle proprie gambe e varcare i confini. Niente avventure con i derivati, niente follie finanziarie, dunque. La lunga recessione ha scosso il modello italiano fatto di piccole aziende familiari diffuse nel territorio, sostenute da banche che spesso si sono comportate come chiocce anziché come “i vigili che regolano il traffico” dei quali parlava Mattioli. I dirigenti di Intesa Sanpaolo credono ancora che quel sistema sia sostanzialmente sano, anche se troppo piccolo e gracile di fronte all’economia globale; quindi va rafforzato e fatto crescere con una buona dose di cura ricostituente che non consiste solo di prestiti e denari liquidi, ma di esperienza, conoscenza, innovazione, competitività. Miccichè non nasconde ai collaboratori il suo obiettivo: quota un miliardo di euro. Che cosa vuol dire? Oggi ci sono cinquemila imprese che fatturano meno di mezzo miliardo, molte di loro producono all’estero l’80-90 per cento dei propri ricavi, ebbene mille possono superare il miliardo e almeno cento possono anche andare in borsa. Modello italiano, in salsa europea. Proprio il paradigma bancario che Intesa ha costruito mattone su mattone, rende plausibili, al di là del gossip politico-finanziario e delle smentite, le voci su Miccichè alla Cdp. Perché la Cassa, strattonata da tutte le parti, tra il sogno di una nuova Iri, la voglia di diventare un fondo sovrano in stile norvegese, il non sopito desiderio di trasformarsi in una vera banca, in questi anni non ha trovato una nuova raison d’être.