Matteo Salvini (foto LaPresse)

Ecco perché saranno soprattutto le donne a pagare l'abolizione della Fornero

Giuliano Cazzola

Lega e M5s vogliono smantellare l'attuale sistema pensionistico. Ma siamo proprio sicuri che i nuovi criteri che vogliono introdurre sono più convenienti rispetto alla situazione attuale?

“Azzeramento della legge Fornero e nuova riforma previdenziale economicamente e socialmente sostenibile”. Così sta scritto nel programma elettorale del centrodestra in materia di pensioni. In questa formulazione le parole – anche quelle a sproposito – sono il risultato di una travagliata mediazione. Si intravvede la ruspa di Matteo Salvini che “azzera” l’odiata riforma del 2011, mentre, nella seconda parte della frase, lo spin doctor Renato Brunetta ha voluto assicurare i mercati e l'Unione che, in caso di vittoria, non si tornerà indietro, ma sarà varata una nuova riforma, non solo sostenibile sul piano sociale, ma anche su quello economico.

 

Non è dato sapere come ciò sarà possibile se non intervenendo sui fattori che determinano gli equilibri o gli squilibri dei sistemi pensionistici (e quindi l’età pensionabile, i requisiti contributivi, le aliquote, i trasferimenti e quant'altro); soprattutto quando la nuova sostenibilità dovrà farsi carico dell'aumento delle pensioni minime (non si parla dei mille euro propagandati da Silvio Berlusconi), dell'erogazione di trattamenti previdenziali alle mamme e (siamo nel campo dell'assistenza) del raddoppio dell'assegno minimo per le pensioni di invalidità e sostegno alla disabilità.

 

Va riconosciuto a Matteo Salvini – grande semplificatore di questioni complesse – il merito di mettere le carte in tavola e di spiegare nelle sue apparizioni televisive quali saranno le future regole: si andrà in pensione dopo aver maturato 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica. Questo sembrerebbe essere il solo criterio che sarà necessario e sufficiente. Ma sono sicuri nei pensatoi del centrodestra (Dio riposi quei cervelli!) che sia anche più conveniente rispetto all'attuale situazione?

 

Basterebbe osservare i dati statistici – che vengono prodotti con frequenza e dovizia di particolari – per accorgersi che assumere come criterio generale quello contributivo (tipico del trattamento anticipato) impedirebbe alla grande maggioranza delle lavoratrici e ai lavoratori con carriere discontinue di andare in quiescenza perché il requisito dei 41 anni non lo raggiungerebbero mai. Come scrive l'Inps nei suoi rapporti periodici “analizzando le sottocategorie si osserva che circa il 77,9 per centodelle pensioni di anzianità/anticipate sono erogate a soggetti di sesso maschile, mentre tale percentuale si abbassa al 35,1 per cento per le pensioni della sottocategoria vecchiaia”. Ovviamente le quote sono rovesciate se si considera il rapporto tra i generi per quanto riguarda i trattamenti di vecchiaia: 3,1 milioni di donne contro 1,7 milioni di uomini nel complesso dei settori privati.

 

È bene ricordare che, in media, un trattamento anticipato è pari a 2,2mila euro mensili lordi a fronte dei mille euro della vecchiaia e che, nei flussi del 2017 del lavoro dipendente privato, l'età effettiva media alla decorrenza del primo è stata intorno ai 61 anni di età, mentre quella della seconda ha sfiorato i 67 anni. Si noti, nel 2017 nel Fondo dei lavoratori dipendenti Inps per ogni 100 nuove pensioni di vecchiaia ne sono state liquidate 180 di anzianità. Quale malefico sortilegio, dunque, induce le lavoratrici ad andare in quiescenza più tardi e con una pensione inferiore alla metà di quella degli uomini?

 

La risposta sta nelle storie lavorative della maggioranza delle donne che in media – almeno per le attuali generazioni del baby boom – sono pari a 25,5 anni (contro 38 anni degli uomini) e quindi dotate di requisiti contributivi appena sufficienti per conseguire (con i 20 anni di versamenti richiesti) la pensione di vecchiaia, per la quale però è in vigore un requisito anagrafico ormai corrispondente a quello degli uomini. Ecco perché spostare sulla sola anzianità contributiva la soglia di accesso al pensionamento significherebbe escludere una gran parte di lavoratrici che non ce la farà mai a raggiungere 41 anni di attività. 

 

Lo stesso ragionamento può essere comprensibilmente svolto anche per i lavoratori appartenenti o appartenuti a settori in cui è tipica la non continuità dell’occupazione. Il bello è che anche i “grillini” sono caduti nella medesima trappola. Abolendo la legge Fornero – è questa la loro intenzione - si ritorna al sistema delle quote (made by Cesare Damiano). Infatti secondo il M5s si potrà andare in quiescenza facendo valere quota 100 (come somma dell'età anagrafica e del requisito contributivo) o 41 anni di versamenti. Traguardi irraggiungibili per la grande maggioranza delle lavoratrici. In sostanza, i “nostri eroi” abolizionisti, pur bucare il pallone dei 67 anni finiscono per immortalare la pensione di Cipputi. Alla memoria.

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