Le banche italiane accelerano per agganciare la rivoluzione tech

Guido Fontanelli

Ricognizione tra grandi e piccoli istituti in cerca di una app. Investimenti per centinaia di milioni e l’idea di non essere indietro

Milano. L’americana Kabbage aiuta le piccole imprese a trovare fondi in poche ore. Satispay è un’applicazione italiana che permette di inviare denaro ai contatti della propria rubrica telefonica e di pagare nei negozi convenzionati. L’ucraina Taplend si occupa di prestiti istantanei. Sono alcuni esempi di aziende fintech, nate fondendo finanza e nuove tecnologie, che offrono servizi di tipo bancario ma con una semplicità e una rapidità mai viste prima. Sono ormai centinaia le startup che dal basso punzecchiano le grandi banche, mentre altre minacce si affollano all’orizzonte. Amazon per esempio inizia a prestare soldi ai negozianti che utilizzano la sua vetrina virtuale e Facebook permette, in alcuni paesi, agli utenti di Messanger di scambiarsi denaro. E poi incombe la direttiva europea Psd2 (Payment service directive 2) che dal 2018, tra le altre cose, obbligherà le banche ad aprire gli iban dei clienti (con la loro autorizzazione) a operatori terzi: per esempio alle app che aggregano più conti correnti di una persona e permettono di disporre bonifici e fare altre operazioni. Vista così la situazione delle banche sembra disperata. Già la crisi dei subprime del 2007 e poi la recessione del 2008 hanno provocato una strage di istituti di credito, tra fallimenti, acquisizioni e salvataggi di stato. Ora chi è riuscito a resistere si trova ad affrontare un’orda di concorrenti creati dalla rivoluzione tecnologica. 

 

Per avere un’idea del clima che si respira nelle eleganti sedi delle grandi banche italiane si può consultare il resoconto dell’audizione alla commissione Finanze della Camera dei deputati del 19 ottobre 2017, una delle riunioni tenute per indagare sull’impatto del fintech sul settore finanziario. In quell’occasione Stefano Barrese, responsabile Banca dei territori di Intesa Sanpaolo, riferendosi alla sfida dei giganti del web ha detto che “è un potenziale problema, considerati gli investimenti che i grandi player mondiali possono fare in tecnologie  senza avere al contempo gli obblighi regolamentari del sistema bancario”. Per non farsi prendere in contropiede, gli istituti di credito stanno reagendo in due modi: investendo in tecnologia per migliorare i siti internet, le applicazioni per gli smartphone e le interfacce (Intesa Sanpaolo ha una app che ora la banca la “costruirà” anche per altre aziende di credito); e poi entrando con quote di minoranza o di maggioranza in società fintech in modo da portarsi in casa le innovazioni più interessanti. Intesa Sanpaolo ha messo sul piatto centinaia di milioni: i fondi Atlante Seed, Atlante Ventures e Atlante Ventures Mezzogiorno hanno investito in oltre trenta aziende hi-tech circa 60 milioni di euro. Il Fondo Atlante Tech, che investe in Europa, Stati Uniti e Israele, ha un obiettivo di raccolta di oltre 120 milioni di euro da investitori istituzionali. E infine Neva Finventures è stato creato proprio con l’obiettivo di investire in startup in ambito fintech e in nuovi business con un potenziale di 100 milioni di investimento.  Unicredit ha lanciato Evo (Equity venture opportunities), un fondo studiato per investire in startup del fintech con una dotazione di 175 milioni di euro. Nel mirino in particolare le società che offrono servizi di consulenza automatizzata, il cosiddetto robo-advising: “Puntiamo su startup capaci di sviluppare applicazioni che, attraverso sofisticati algoritmi, aiutino i clienti negli investimenti o a risparmiare, suggerendo loro le scelte migliori in base al personale profilo di rischio” spiegano a Unicredit. CheBanca!, retail di Mediobanca, ha rilevato la maggioranza della svizzera Ram Ai, che utilizza l’intelligenza artificiale per investire, per un valore – non rivelato – ma stimato da Equita in 154 milioni di euro (180 in franchi svizzeri). Anche banche più piccole investono nel settore: Banca Sella ha creato un acceleratore di aziende, il Fintech accelerator program, dal quale sono decollate alcune start-up come l’ucraina Taplend. Il sistema bancario italiano sta insomma investendo centinaia di milioni. Nella vicina Francia Bnp Paribas, Crédit Agricole e Société Générale hanno fatto del digitale una priorità promettendo investimenti miliardari.

 

Non tutti ritengono che il mondo fintech, in particolare quello delle piccole aziende che creano applicazioni innovative, rappresenti una vera minaccia per il sistema bancario. Massimo Arrighetti, ad di Sia, è uno di questi. Nato professionalmente all’Ibm, cresciuto in McKinsey e passato per Poste (dove ha fondato il nuovo BancoPosta) e Intesa con Corrado Passera, dal 2010 guida un’azienda fiore all’occhiello della tecnologia italiana: Sia è leader europeo nelle aree dei pagamenti, dei servizi di rete e dei mercati dei capitali; offre servizi in 46 paesi; nel 2016 ha gestito oltre 55 miliardi di transazioni e il 40 per cento circa dei pagamenti e incassi dell’Eurozona. Dal 21 novembre ha reso disponibile a tutte le banche europee l’infrastruttura per inviare e ricevere il bonifico istantaneo, che ha portato da 24 ore a 10 secondi il tempo di chiusura dell’operazione, con tutte le verifiche necessarie.  Arrighetti fa un ragionamento che ridimensiona il pericolo proveniente da alcuni giganti del web: “C’è già qualcuno che parla di bolla del fintech – esordisce – perché quando si parla di applicazioni che hanno a che fare con il denaro i margini sono minimi e i rischi molto alti. Una cosa è scaricare una canzone da un sito come iTunes: spendo meno di un euro, se il sistema ha dei problemi posso aspettare e la Apple ha dei margini altissimi. Ma se io trasferisco dei soldi, l’operazione deve essere sicura, non può avere alcun problema e chi la gestisce incassa piccolissime frazioni. E per quanto riguarda chi offre prestiti ai privati e alle piccole imprese, voglio vedere chi resiste quando il denaro non viene restituito: alcune fintech sono già fallite e ora non è tanto facile trovare chi le finanzia a New York o a Londra”. In altre parole, gruppi come Apple o Google sono abituati a margini alti e a rischi bassi e non hanno alcun interesse a fornire servizi bancari, dove al contrario i margini sono bassi e i rischi alti. Secondo Arrighetti è probabile che Google, Apple o Facebook, siano molto più interessate ad acquisire informazioni, utilizzando i servizi bancari tradizionali: come sta accadendo con Apple Pay, che si appoggia al sistema delle carte di credito. Le banche allora possono stare tranquille? No, risponde Arrighetti: “Ci sono due aziende che invece possono diventare temibili avversari per il sistema del credito: Amazon e PayPal, che prestano soldi alle piccole imprese e hanno il vantaggio di avere le spalle forti e di poter vedere le aziende che fanno più affari e sono più affidabili”. Segnate questi nomi: Amazon Lending e PayPal Working Capital. Saranno loro a finanziare in futuro le piccole e medie aziende italiane?

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