Il senso di Marchionne per il rischio

Renzo Rosati

L’Alfa-Sauber in Formula 1 è una sfida alla storia. Critici e sindacati in agguato

Sarà difficile vedere nel 2018 una Alfa Romeo-Sauber su un podio di Formula 1: la scuderia svizzera è arrivata ultima nel campionato costruttori appena concluso. Dunque perché Sergio Marchionne ha deciso di investire nella Sauber il nome del biscione, il blasone, il colore rosso Alfa, la partecipazione italiana allo sviluppo, anziché limitarsi a continuare a vendere i motori Ferrari dell’anno prima? Benché la suggestione sia molta, le glorie dell’Alfa si perdono nel passato (due mondiali vinti nel 1950 e 1951, fin quando l’Iri, allora proprietario, si ritirò). Per la verità la decisione fu del governo: le corse erano roba da ricchi e spericolati viveur, i soldi pubblici andavano spesi più democraticamente. Negli anni 70 e 80, l’esperienza di fornitura di motori a scuderie minori e un breve ritorno da costruttore: pochi successi, e molte critiche da sindacati e partiti, impegnati invece a finanziare l’operazione Alfasud e a un riscatto del Mezzogiorno, entrambi falliti. Quando Fiat rilevò Alfa nel 1986 il patto consociativo fu rinnovato: doveva limitarsi a fornire linee sportive alla Fiat per saturare la produzione, più che puntare sulla qualità. Nelle corse una casa generalista come Honda ha rimesso soldi e prestigio. Dunque perché proprio ora, alla vigilia dell’addio di Marchionne al Lingotto? La risposta sta nella sua attitudine, finora vincente, a rompere gli schemi e rischiare anziché campare di rendita. La F1 ha un grande ritorno d’immagine ma è ormai un laboratorio hi-tech, dai motori ibridi ai materiali alle gomme. Soprattutto i primi sono indispensabili all’Alfa se vuol tornare un marchio premium in Europa e negli Stati Uniti. Da uno che è riuscito a vendere agli americani Jeep prodotte in Basilicata è lecito aspettarsi sorprese, e qualche ulteriore beneficio per il pil.

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