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Per ogni paradiso fiscale (fino in Tibet) c'è un inferno di tasse

Nunzia Penelope

Dei 30 mila miliardi di dollari off-shore meno di un terzo può essere attribuito al crimine. Il resto è denaro pulito in fuga dal fisco considerato esoso 

Roma. C’è qualcosa di surreale nella periodicità con cui emergono scandali legati ai paradisi fiscali. Il più recente è Paradise Papers, due anni fa c’erano i Panama Papers, prima ancora LuxLeaks, e altri di cui ormai sfugge il nome. Altrettanto curiosa è la pervicacia con cui i governi di mezzo mondo si impegnano periodicamente nell’annuncio di azioni definitive per mettere fine ai paradisi, ma senza mai cavare il ragno dal buco. Il sistema off-shore, infatti, continua a godere di ottima salute, tanto che aumentano costantemente i paesi che propongono i loro richiestissimi servigi a capitali di qualunque provenienza. Ultimo arrivato in questa folta schiera è il Tibet, che da luogo di mistica meditazione si è recentemente trasformato in accogliente approdo fiscale. Moltissime le società (cinesi ma non solo) che hanno già traslocato a Lahsa. La capitale tibetana, oltre a una strepitosa vista sull’Himalaya, offre oggi un’ imposta societaria del 15 per cento, che unita a un pacchetto di altre agevolazioni riesce a far scendere il tax rate complessivo fino al 9 per cento. Probabilmente il più basso del mondo, roba da far sembrare le Cayman un inferno fiscale.

  

E proprio qui, forse, sta il succo della questione. Nel sistema off-shore circolano circa 30 mila miliardi di dollari, il doppio del pil degli americano, venti volte il pil italiano. Di questi, secondo gli esperti, meno di un terzo può essere attribuito al crimine; il resto è denaro pulito in fuga dal fisco – a torto o a ragione – considerato esoso dei paesi “per bene”. I quali, giustamente, si lamentano delle risorse sottratte alle loro casse. E tuttavia, a ben guardare, nessuno Stato è davvero vittima innocente. Gli Stati Uniti, con Obama schierati in prima linea nella guerra ai paradisi, hanno all’interno alcune intoccabili isole fiscalmente felici che si chiamano Nevada, Florida, Delaware, Wyoming. L’Europa, a sua volta, se da un lato è impegnata contro il mondo offshore, dall’altro mantiene un sistema fiscale parallelo di tutto rispetto: Irlanda, Cipro e Malta consentono facilitazioni superiori alle Cayman; la Francia ha rapporti stretti con i paradisi di Monaco e Andorra; l’Olanda è sede di 23mila società fantasma; in Lussemburgo hanno l’indirizzo fiscale (chissà perché) tutti i grandi gruppi e istituti bancari; Lichtenstein, Austria, e la Germania attraverso una rete di banche locali, costituiscono una sorta di porto franco.

  

Quanto al Regno Unito, che oggi si scandalizza un po’ ipocritamente per i possedimenti alle Cayman di Elisabetta II, rivelati dai Paradise Papers, sembra dimenticare che sotto la sua bandiera prosperano alcuni tra i migliori paradisi al mondo: dalle isole del Canale, alle Bermuda, alle stesse Cayman, che per l’appunto fanno parte del Regno Unito, e non si vede quindi perché mai la Regina non dovrebbe custodirvi i propri capitali.

  

Il mondo “off-shore”, del resto, al di là delle cronache di colore caraibico, è ormai un’industria globale molto redditizia e strutturata, organizzata dalle più grandi banche del mondo, gestita da una miriade di studi legali e società di revisione dai nomi prestigiosi, con base a New York, Londra, Ginevra, Francoforte. Nessun governo vuole, o può, realmente combattere questa guerra. Ma allora che senso hanno gli scandali che si susseguono? Una risposta potrebbe essere nel numero dei paradisi: più aumenta (qualche anno fa il Monde ne ha censiti 96, e ancora non c’era il Tibet) più è frenetica la corsa ad accaparrarsi i capitali in fuga dagli inferni fiscali, ovvero da paesi con alta pressione fiscale. La concorrenza è fortissima e al ribasso: se i paesi che da più tempo fanno parte del sistema off-shore possono offrire condizioni di favore a società e capitali, gli ultimi arrivati devono offrire condizioni più competitive. E se la pioggia di dossier che a turno getta discredito su questo o quel paese, fosse un’arma della guerra interna ai paradisi stessi, non sarebbe così stupefacente.

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