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Da terra di nessuno a snodo strategico. Ecco l'affare Artico

Gabriele Moccia

Cosa succede tra Russia, Cina e Stati Uniti per il controllo delle risorse energetiche in cima al mondo

Negli ultimi giorni d’estate, il primo ministro russo, Dimitry Medvedev ha tenuto una riunione governativa dedicata allo sviluppo dei territori artici della Russia. Dopo mesi di speculazioni e rumors sulla reale volontà russa di impegnarsi per conquistare quello che è diventato uno scacchiere geopolitico fondamentale, Medvedev ha detto di fare sul serio, annunciando uno stanziamento straordinario di quasi 3 miliardi di dollari per la crescita delle attività economiche e delle comunità russe presenti nella regione. Il parziale scioglimento dei ghiacci dell'Artico sta trasformando una remota terra di nessuno in un potenziale snodo strategico per il commercio globale, e Cina e Russia si sono già attivate da tempo per garantirsi l'accesso alle risorse naturali che si celano sotto il ghiaccio della calotta polare. Gli Stati Uniti, stanno studiando una consistente espansione della loro flotta di rompighiaccio e valutando se armare o meno quei vascelli con lanciatori per missili da crociera, oltre a studiare le modalità di gestione del traffico marittimo commerciale in un'area ancora imprevedibile e assai pericolosa per la navigazione. L'ammiraglio Paul Zukunft, comandante della Guardia costiera Usa, recentemente ha lanciato un avvertimento circa la presenza navale russa e cinese sulle acque artiche sovrastanti la piattaforma continentale degli Stati Uniti. Anche Svezia e Norvegia, i due paesi scandinavi più esposti alla minaccia russa, sono sugli scudi. La Svezia, ha appena varato una legge per il budget della difesa che incrementa di molto gli stanziamenti, soprattutto per rafforzare i presidi militari dell'isola di Gotland, considerata strategica dal ministro della difesa svedese, Peter Hultqvist. Non è un caso, infatti, che solo qualche giorno fa la Russia abbia messo in acqua il più potente rompighiaccio al mondo, il Sibir, dotato di due reattori nucleari e progettato per il trasporto di carichi lungo la rotta del circolo polare artico.

  

La storia della presenza russa nell’Artico affonda le sue radici nell’espansione geografica dell’Unione Sovietica. Prima un tentativo di sviluppo, intorno agli anni settanta e poi un lento progressivo sganciamento dagli interessi economici della regione, man mano che la potenza industriale sovietica andava scemando. Un nuovo interesse del Cremlino legato all’esplorazione di idrocarburi nell’Artico si ha solo nel 2009, quando lo Us Geological Survey, pubblica una interessante ricerca che localizzava quasi il 30 per cento delle riserve mondiali di gas ancora non scoperte e il 13 per cento di quelle di petrolio proprio nella regione artica. Circa il 60 per cento di questa ricchezza ancora da trovare – sempre secondo l’Istituto americano – si sarebbe trovata nella zona economica esclusiva appannaggio di Mosca. Soprattutto l’era del potere putiniano ha creduto nell’artico come nuova regione Eldorado. Ed ecco che oggi principalmente i due colossi energetici russi, Gazprom per il gas e Rosneft per il petrolio, controllano quasi l’ottanta per cento delle riserve presenti nella calotta artica. Un duopolio così marcato ha spinto altre compagnie russe come la Lukoil e la Bashneft a chiedere al presidente Putin una maggiore liberalizzazione. Negli anni si è scatenata una vera guerra di licenza che l’apparato di comando russo ha fatto fatica a gestire, motivo per cui la stessa Lukoil ha deciso di spostare le sue attività verso le acque norvegesi. E ora anche gli Usa puntano allo sviluppo artico.

 

Trump ha ingaggiato una dura battaglia interna per aprire l’Arctic National Wildlife Refuge – una zona cuscinetto di competenza americana dove sono vietate l’attività estrattive – all’esplorazione di idrocarburi. Il governo dell’Alaska, in cerca di denari per coprire i buchi del proprio bilancio sempre di più eroso dalla tempesta del cheap oil, si è subito schierato a favore, ma Trump deve ancora conquistarsi l’appoggio di una parte di repubblicani che vede le attività estrattive artiche con scetticismo. Anche in un’ottica di contenimento delle future mosse americane, Putin sta continuando a tessere con intensità la sua tela diplomatica per mantenere il controllo delle rotte artiche. In occasione dell’ultimo Consiglio artico – tenutosi proprio nel villaggio russo di Sabetta – il capo del Cremlino ha chiesto “un approccio aperto, equo e efficace per uno sviluppo economico effettivo dell'Artico, per rafforzare il dialogo politico, economico e sociale internazionale, volto a risolvere i problemi urgenti della regione". Parole che rischiano di cadere nel vuoto. La Cina, che non è geograficamente attigua alla regione, ma è presente in Artico con una serie di vascelli esplorativi e di ricerca, e sostiene che nessun paese possa vantare la sovranità esclusiva su quelle acque e le risorse sottostanti. Qualche mese fa, alcuni alti ufficiali dell'esercito popolare di liberazione, come riferito dal Washington Post, hanno affermato pubblicamente che le dispute nell'area, in futuro, potrebbero obbligare il paese a ricorrere alla forza.

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