L'inganno statistico sulla disoccupazione giovanile

I giovani senza lavoro sono meno di quanto crediamo: non sono il 35 per cento ma il 10

Il testo è un estratto del libro “L’inganno generazionale. Il falso mito del conflitto per il lavoro” (Università Bocconi editore).
Alessandra Del Boca, economista all’Universitaà di Brescia, e Antonietta Mundo, ex attuario all’Inps, smontano i luoghi comuni che imperversano su giovani e anziani, lavoro e pensioni, per dimostra come i dati rivelino realtà più sfumate, inattese, talora rassicuranti.

 


 

Il tasso di disoccupazione giovanile italiano, per chi ha tra i 15 e i 24 anni, è uno dei più elevati tra i ventotto paesi europei: nel 2015, come rileva Eurostat, raggiungeva il 40,3 per cento, dato superato solo dalla Grecia con il 49,8 per cento e dalla Spagna con il 48,3 per cento. La disoccupazione media europea in quell’anno era pari al 20,3 per cento e la Germania, con il 7,2 per cento, aveva il tasso di disoccupazione giovanile più basso.

 

I tassi di disoccupazione giovanile di alcuni paesi nord europei sono più bassi perché si tratta di stati dove l’obbligo scolastico è stato elevato fino a 18 anni e dove le norme non consentono l’accesso all’indennità di disoccupazione al di sotto della maggiore età. Nel Regno Unito, in Irlanda e in Danimarca un ragazzo che studia non può ricevere l’assegno di disoccupazione prima dei 18 anni e, anche dopo i 18, l’assegno è alternativo all’iscrizione scolastica o universitaria a tempo pieno. In Italia invece l’obbligo scolastico si ferma a 16 anni, dopo dieci anni di studi, e non esiste incompatibilità tra studio e indennità di disoccupazione. Anzi, con la riforma del mercato del lavoro del 2012, il ministro Fornero ha incluso gli apprendisti tra coloro che hanno diritto all’indennità di disoccupazione. Una scelta che certamente incide sulla spesa per gli ammortizzatori. Se lo guardiamo in serie storica, il tasso di disoccupazione giovanile italiano, che negli anni Settanta del secolo scorso era intorno al 20 per cento, è cresciuto al 30 per cento tra gli anni Ottanta e Novanta. Tra il 2000 e il 2008 è ridisceso intorno al 20 per cento per effetto delle riforme che hanno liberalizzato i contratti temporanei e dal gennaio 2009, inizio della lunga crisi, ha ripreso a salire fino a raddoppiare nel 2013-2015, con un picco del 42,7 per cento nel 2014, per poi decrescere nel 2016 al 37,8 per cento.

 

Al perdurare della crisi i giovani non si arrendono e si iscrivono sempre prima, sin dai 15 anni, ai Centri per l’impiego, anche mentre studiano a tempo pieno nella scuola secondaria. Iscrivendosi e iniziando a lavorare anche in modo saltuario, entrano a far parte delle statistiche sulle forze di lavoro dell’Istat, tra quei giovani della classe di età 15-24 anni: persone occupate e disoccupate. Contemporaneamente questi ragazzi sono iscritti alle scuole secondarie di secondo grado o all’università e appaiono anche nelle statistiche del ministero dell’Istruzione, università e ricerca (Miur). Se durante l’estate trovano occupazione come dipendenti in lavori a tempo determinato o stagionali, retribuiti nel rispetto dei minimi settimanali per almeno 13 settimane, al termine hanno diritto all’indennità di disoccupazione. Così facendo, i giovani studenti, ogni volta che trovano lavoro in estate, vanno a ingrossare le fila degli occupati prima e della disoccupazione giovanile poi, anche se, terminata la stagione, in autunno tornano regolarmente a scuola o all’università a tempo pieno.

 

Tale fenomeno, che è sconosciuto ai più, emerge chiaramente se incrociamo diversi dati ufficiali, di fonte Istat, Miur, Inps e ministero del Lavoro, sui giovani tra i 15 e i 24 anni: le assunzioni – in prevalenza con contratti temporanei – si concentrano nei mesi estivi, a partire da giugno. Le cessazioni si concentrano nell’autunno, a partire da settembre. Ora, se prendiamo in considerazione alcuni dati relativi, per esempio, agli anni 2007, 2013, 2014, per quanto il confronto tra le diverse fonti possa parzialmente risentire del disallineamento temporale delle rilevazioni che riguardano, da un lato la popolazione, dall’altro le forze di lavoro, non possiamo non rilevare una duplicazione a dir poco… sorprendente: tra i giovani della fascia di età 15-24 anni, circa 584 mila nel 2007, circa 319 mila nel 2013 e circa 187 mila nel 2014 compaiono due volte: sia nelle statistiche degli studenti iscritti a tempo pieno nelle scuole secondarie o nelle università sia tra le forze di lavoro!

 

E’ evidente che, poiché stiamo parlando in prevalenza di attività stagionali di studenti a tempo pieno, per trarre conclusioni più corrette sulla realtà della disoccupazione giovanile occorre depurare le forze di lavoro dei dati duplicati, decidendo da che parte mettere gli studenti-lavoratori e gli studenti-disoccupati. Il forte aumento della disoccupazione giovanile, che emerge dalle statistiche, potrebbe dunque essere frutto anche dell’operosità dei giovani, che si riflette in modo ingannevole nei dati.

 

Vediamo come.

 

Con la crisi, molti più giovani studenti decidono di svolgere lavori stagionali per guadagnare qualcosa, portandosi così a casa anche un’indennità di disoccupazione nei mesi successivi. Un riscontro di questo fenomeno lo troviamo nei dati Inps: nel 2013, tra i beneficiari della disoccupazione Inps contiamo circa 145 mila giovani fino ai 24 anni, che aumentano a circa 166 mila nel 2014. L’entrata degli apprendisti nella platea dei potenziali disoccupati Inps è un ulteriore fattore che contribuisce a spiegare l’aumento in tale anno. Evidentemente i nostri giovani cercano di inserirsi nel mercato del lavoro molto presto per guadagnare referenze e punteggi nella graduatoria del collocamento e maturare esperienze professionali: un fatto sicuramente positivo – che li aiuta a posizionarsi bene sul mercato – ma che genera tuttavia l’effetto ingannevole di gonfiare i tassi di disoccupazione giovanile calcolati dall’Istat. Questi ragazzi non sono tecnicamente dei disoccupati! Sono degli studenti che svolgono lavori stagionali ma, ricevendo un sussidio di disoccupazione, alterano la percezione del fenomeno.

 

La vera disoccupazione giovanile

Il metodo stesso impiegato per costruire il tasso di disoccupazione giovanile è un’altra fonte di possibile inganno: ci troviamo infatti di fronte a un indicatore molto discusso dagli statistici di Eurostat, che lo considerano distorsivo proprio per la forte presenza di studenti nella popolazione di età 15-24. Eurostat punta il dito sulla complessa interazione tra istruzione e partecipazione al mercato del lavoro: come abbiamo visto, in alcuni paesi tra cui l’Italia è consentito entrare nel mercato del lavoro prima che altrove, mentre in altri l’istruzione obbligatoria dura più a lungo.

 

Istruzione e mercato del lavoro finiscono per interagire e sovrapporsi in modo diverso a seconda delle leggi nazionali. La convivenza di studio e lavoro non è esclusiva dei giovani ma per i giovani è caratteristica e preponderante (mentre per gli adulti si tratta di un numero limitato di casi). Gli occupati e i disoccupati sono definiti tali a prescindere dal loro essere o non essere inseriti nel sistema dell’istruzione: le statistiche di Eurostat, Ocse, Ilo e Istat non escludono dalla disoccupazione gli studenti che hanno lavorato, in quanto studenti, ma mettono in chiaro come la loro presenza nell’istruzione abbia un effetto distorsivo e ingannevole sul tasso di disoccupazione giovanile. [...]

 

E’ facile prendere questo abbaglio, che ha ingannato molti, perché nelle classi di età centrali le forze di lavoro e la popolazione corrispondono per il 70-80 per cento, mentre lo fanno per meno del 30 per cento nelle età giovanili. Dall’indagine Eurostat sulle forze di lavoro del 2012, risulta per esempio che su una popolazione di 57,5 milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni, ci sono in media 5,6 milioni di disoccupati e 24,4 milioni di attivi (occupati più disoccupati). Se dividiamo i 5,6 milioni di disoccupati per i 24,4 milioni di attivi otteniamo un tasso di disoccupazione giovanile del 23,0 per cento. Ma la differenza tra la popolazione e gli attivi è di 33,1 milioni di ragazzi studenti o Neet. Se invece al denominatore mettiamo i 57,5 milioni di popolazione otteniamo un’incidenza della disoccupazione sulla popolazione pari a 9,7 per cento, che secondo Eurostat definisce in modo più corretto il fenomeno. Proprio per questo motivo, dice Eurostat, i tassi di disoccupazione giovanile sono spesso “misinterpreted”, interpretati in modo distorto. Il paradosso a cui si arriva è che il tasso di disoccupazione giovanile può essere molto elevato anche con pochi disoccupati e forze di lavoro ridotte.

 

Per riparare all’inganno e al rischio d’interpretazioni fallaci, Eurostat e Istat elaborano un secondo indicatore per la fascia di età 15-24: l’incidenza della disoccupazione sulla popolazione, che ha lo stesso numeratore del tasso di disoccupazione, ma il denominatore è la parte di popolazione in età 15- 24. Questo indicatore – più corretto – per il 2012 ci dice che nel confronto con il dato europeo del 9,7 per cento l’Italia si pone al 10,1 per cento, quindi appena sopra la media europea! Al tasso di disoccupazione giovanile 15-24 del 37,8 per cento corrisponde cioè un’incidenza dei disoccupati sulla popolazione di età 15-24 del 10,1 per cento, media 2016.

 

La preoccupazione di vederci chiaro nel metodo con cui i tassi di disoccupazione sono calcolati esprime la nostra volontà di comprendere il fenomeno più a fondo. Se troviamo che i tassi di disoccupazione, come sono calcolati, devono essere rivisti verso il basso non significa che sottovalutiamo la gravità del problema, anzi proprio il contrario. I Millennial, che Istat definisce come la generazione nata tra il 1981 e il 1995, è oggi la parte della nostra popolazione che in assoluto soffre di più economicamente e psicologicamente: dopo essersi diplomata o laureata, non riesce a realizzare il suo investimento in capitale umano in tempi ragionevoli, e incontra forti difficoltà a inserirsi in un mercato del lavoro la cui domanda sta evolvendo più velocemente, e diversamente dalla loro istruzione. La nostra analisi ci ha portate a distinguere all’interno delle classi di età i più giovani, quelli che l’Istat definisce I-Generation (nati dal 1996 in poi), che sono prevalentemente a scuola, da quelli tra i 25 e i 34 anni, che si trovano nella situazione più grave.

 

Proprio i Millennial, “la generazione perduta”, sono il vero potenziale inutilizzato per cui il governo dovrebbe lavorare per un recupero attivo, con un’attenzione particolare alle nuove misure che l’Agenzia del lavoro dovrebbe sperimentare. Tutta l’enfasi del governo, della politica, delle istituzioni, della comunicazione e dell’analisi economica è concentrata sulla disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni, ma in realtà è molto più allarmante la disoccupazione della fascia di età successiva, quella 25-34 anni. I giovani di 25-34 anni hanno un tasso di disoccupazione molto più elevato del tasso medio e la componente studentesca tra di loro è minima: nel 2016 il loro tasso di disoccupazione è del 17,7 per cento, contro quello della generalità dei lavoratori (di età 15-64) che, nello stesso anno, è dell’11,7 per cento. [...]

 

Molto preoccupante è anche il crescente fenomeno degli inattivi o Neet, “Not in Education, Employment or Training”, “Né studenti né lavoratori”: giovani che non lavorano e non studiano, non frequentano corsi di formazione o di aggiornamento, e hanno smesso di cercare lavoro e sono diventati potenziali forze di lavoro. Nel nostro paese il fenomeno è in aumento, i Neet italiani rappresentano circa un terzo dei Neet europei. Questi giovani, tra i 15 e i 29 anni di età, che nel 2016 erano circa 1.254.000, si possono dividere in due gruppi: le “potenziali forze di lavoro”, circa il 58% del totale, bilanciati tra i generi, e coloro che “non cercano e non sono disponibili a lavorare”, che rappresentano il restante 42 per cento, di cui il 72 per cento donne. Il tipico Neet che vive nel nostro paese è una donna, tra i 15 e i 29 anni, cittadina italiana, residente nel mezzogiorno, con istruzione secondaria di primo (scuola media, 51,6 per cento) o secondo grado (diploma, 37,9 per cento), che si dichiara casalinga. PricewaterhouseCoopers calcola che, tra i 35 paesi Ocse, l’Italia si trova al penultimo posto della graduatoria con un tasso di Neet del 35,0 per cento, preceduta da Grecia e Spagna con tassi rispettivamente del 31,3 per cento e del 29,0 per cento, appena prima della Turchia, ultima con un tasso del 36,3 per cento. Come dire: abbiamo uno dei maggiori potenziali lavorativi di giovani fino a 29 anni inutilizzato. PWC stima infatti, che se l’Italia nel lungo periodo riducesse i Neet fino a raggiungere i livelli tedeschi, incrementerebbe il Pil di 156 miliardi di dollari, in valore corrente 2016. La Commissione Europea per contrastare il fenomeno dei Neet ha deciso per l’Italia di rifinanziare nel 2017 il programma Garanzia Giovani fino ai 29 anni.

 

Altrettanto preoccupante è il progressivo crollo delle immatricolazioni universitarie negli atenei italiani, a partire dal 2005. Si tratta di un crollo che, come rileva Tiziana Catarci, “non è completamente spiegato dall’andamento demografico decrescente delle generazioni di 19enni o dalla crisi del 2008, che sicuramente ha influito”, è certamente provocato anche da “altri fattori quali lo spread formativo tra università italiane ed estere, nonostante il nostro buon livello qualitativo, dovuto ai tagli delle spese universitarie e del personale docente”. Da ultimo, “potrebbe aver influito una leggenda metropolitana che circola tra i giovani e sui media, secondo cui per trovare lavoro è inutile laurearsi”. Questa “leggenda” inganna i giovani che non si preoccupano di andare al di là di un’analisi superficiale dei dati, che, proprio perché superficiale, è capace di rafforzarli nella loro convinzione senza spingerli ad alcun approfondimento. L’Istat, per contro, certifica che nel 2016, “al di là delle variazioni rispetto a un anno prima, il tasso di occupazione resta più elevato al crescere dell’istruzione e passa dal 28,7 per cento di chi ha solo il titolo elementare al 77,63 per cento dei laureati; fanno eccezione i giovani fino a 24 anni: tra questi coloro che hanno il diploma presentano un tasso di occupazione del 26,8 per cento, leggermente maggiore dei laureati, con un tasso di occupazione del 23,2 per cento: perché? E’ molto semplice, entrano prima nel mercato del lavoro rispetto a chi prolunga gli studi di altri tre o cinque anni”.

 

L’ingresso tardivo nel mercato del lavoro dei laureati rispetto ai diplomati non deve tuttavia portare a trarre conclusioni ingannevoli e pericolose dal punto di vista sociale, come l’idea che la laurea “paghi meno” del diploma in termini economici e occupazionali. Piuttosto, deve indurci a mettere in evidenza la peculiarità dei dati della disoccupazione giovanile e la particolare attenzione nell’interpretarne i valori, così alti e stranamente disallineati rispetto al quadro complessivo, su cui la classe politica si esercita quotidianamente con alti lamenti, che aumentano solo la confusione e il panico, distogliendo lo sguardo dal problema vero – più grave – della disoccupazione, nel 2016, degli 874 mila giovani della fascia più adulta di età 25-34, con un tasso di disoccupazione del 17,7 per cento. La popolazione dei più giovani è molto dinamica e soggetta nel giro di pochi anni a passaggi di stato importanti, che possono decidere in modo permanente la vita futura delle persone e del paese. Questo dinamismo interessa tutti gli stati degli appartenenti alle età under 25: studenti, occupati, disoccupati e inattivi, compresi quegli “stati doppi” in cui lo stesso giovane può trovarsi, ovvero studio e lavoro oppure studio e disoccupazione.

 

A questo proposito, vale la pena osservare che, se le generazioni successive (quelle in età 25-59 anni) sono più stabili, interessate da passaggi di stato meno frequenti e, come tali, consentono quindi descrizioni e classificazioni di fenomeni socio-economici più confrontabili, le generazioni di età 60-69, con i loro passaggi di stato da occupato (o disoccupato) a pensionato o pensionato/lavoratore, presentano invece le stesse problematiche e si prestano agli stessi inganni dei giovanissimi nella lettura dei dati e nei confronti con le strutture della popolazione delle generazioni precedenti o seguenti.

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