L'illusione che uccide Venezia

Carlo Lottieri

La città delle piccole botteghe non tornerà più. La discutibile politica dei divieti che mette in discussione ogni diritto di proprietà non fa altro che accelerarne il declino

Da anni Venezia è in crisi. Museo en plein air e formidabile collezione di memorie storiche e opere d’arte, quella che fu la Serenissima vanta un passato senza paragoni e, a dispetto delle sue potenzialità, deve confrontarsi con un presente difficile. Da tempo, la città è afflitta da disagi che non sa gestire e se da lontano si può credere che quanti vivono in laguna siano soprattutto ossessionati dall’acqua alta, in verità il dibattito pubblico è dominato più che altro dal problema dello spopolamento (la città sta progressivamente perdendo residenti) e dal turismo di massa, che in vari momenti dell’anno – dalle feste natalizie al Carnevale, all’alta stagione estiva – rende difficile muoversi.

 

Gli attuali 55 mila abitanti devono infatti fare i conti con una gran quantità di turisti: con punte che superano le 100 mila presenze giornaliere. E i due problemi sono in larga misura collegati, dato che se oggi a Venezia i prezzi delle abitazioni sono molto alti, questo si deve essenzialmente alla forte domanda proveniente da fuori e alla crescente richiesta di spazi per attività ricettive.

 

L’avvento del turismo su larga scala, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, ha creato opportunità lavorative (ciò che i veneziani apprezzano), ma ha anche fatto crescere i prezzi, dalla casa al ristorante (ciò che i veneziani, ovviamente, detestano). In città, ben 30 mila posti letto – tra case e alberghi – sono ormai riservati ai turisti. Il risultato è che tanti si sono arricchiti grazie all’esplosione dell’economia turistica, poiché oggi possono incassare una grossa somma in cambio di una modesta abitazione ereditata dai genitori, e ora però si lamentano dell’alto costo della vita. Dovrebbero capire che ogni medaglia ha due facce.

 

Certo nessuno pensa di poter fare a meno di chi viene a vedere piazza san Marco e il Palazzo Ducale, la Ca’ d’Oro e il ponte di Rialto. Senza i turisti e i redditi che generano, oggi Venezia sarebbe una sorta di triste Pompei dell’età moderna. Sarebbe una landa desolata in cui ci si potrebbe fare solo una vaga idea di cosa è stata la città di Marco Polo, Paolo Sarpi, Antonio Vivaldi e Giacomo Casanova. Se c’è ancora oggi una produttività veneziana, la si ritrova soprattutto in questa formidabile capacità di accogliere i visitatori. E’ però certamente vero che, oltre alla ricchezza, i turisti portano in laguna una serie di difficoltà che Venezia dovrebbe gestire meglio.

 

Il caro-vita e la congestione delle calli andrebbero comunque affrontati dopo aver compreso gli errori del passato e avere accantonato la maggior parte delle proposte sul tappeto: che in buona sostanza ripropongono schemi stantii.

 

Innumerevoli case pubbliche e una regolamentazione asfissiante

Anche se i veneziani sembrano non ammetterlo, uno dei problemi principali di Venezia è rappresentato dal gran numero di immobili pubblici. In un’ampia inchiesta del febbraio del 2016 realizzata da Davide Scalzotto per Il Gazzettino veniva evidenziato come all’interno di tutta la Venezia amministrativa (che include Mestre e Marghera) vi siano quasi 12 mila case pubbliche, di cui circa la metà sono comunali. Nella Venezia propriamente detta, tra centro storico e isole, sono ben circa 2500 le case del comune. Per capire che si tratta di un’anomalia basti pensare che in tutta Padova sono solo 1.680, nonostante si tratti di un centro di 210 mila abitanti.

 

Periodicamente questi alloggi assurgono agli onori della cronaca: come quando la stampa locale informò che per un alloggio di 92 metri fronte San Marco c’era chi pagava solo 10 euro al mese. Ovviamente questo non ha giustificazioni, perché pure entro una logica statalista sarebbe meglio affittare quella casa sul libero mercato e con quelle risorse aiutare molte persone in difficoltà.

 

Senza i turisti e i redditi che generano, oggi Venezia sarebbe una sorta di triste Pompei dell'età moderna. Una landa desolata

I veri problemi, però, sono altrove. Queste pur sacrosante denunce rischiano di limitarsi a chiedere la razionalizzazione di una realtà che invece va superata. Al di là delle morosità e dei favori clientelari, per non parlare delle occupazioni abusive, il vasto arcipelago delle abitazioni pubbliche è una delle cause del degrado di Venezia. Bisogna prendere atto che una parte rilevante di questa metropoli unica al mondo, impostasi grazie al dinamismo capitalistico degli scambi commerciali, è finita in una specie di Germania Est. E la Venezia odierna, con tutte le sue fragilità, esige invece cure particolari: non può essere lasciata nelle mani di politici e burocrati, tanto più che la manutenzione di una casa a Milano è ben diversa da quella di cui ha bisogno un immobile in laguna. E se le case pubbliche sono un disastro ovunque, figuriamoci tra calli e campielli…

 

Si dovrebbe allora avere il coraggio di privatizzare queste migliaia di alloggi pubblici, consegnandoli a chi se ne prenderà davvero cura: che si tratti degli attuali inquilini o di altri. Si deve poi mettere il proprietario nelle condizioni di disporre come vuole di quel bene, lasciandolo libero, ad esempio, di modificare la destinazione d’uso e ricavare da quegli spazi ciò che vi può essere di più utile.

 

Purtroppo, oggi Venezia è invece ultra-regolamentata anche se paradossalmente, nelle discussioni cittadine, è formulata a ogni piè sospinto la richiesta di ulteriori vincoli: in una sorta di cupio dissolvi. Già adesso moltissime abitazioni senza alcun pregio particolare sono poste sotto la tutela della Sovrintendenza delle Belle Arti, con il risultato che è complicato ristrutturare, rendere gli spazi fruibili, sostituire i pavimenti, rifare il bagno e via dicendo.

 

Se le case popolari sono per definizione nelle mani dell’amministrazione pubblica, quelle private lo sono quindi in buona misura, a causa di regole che impediscono al proprietario di essere davvero tale e che si aggiungono al peso dell’imposizione sugli immobili. Lo scorso giugno la giunta fucsia di Luigi Brugnaro ha bloccato la creazione di nuovi alberghi e b&b; e solo due mesi dopo una decisione della Consulta ha bocciato quei monolocali in affitto la cui dimensione è inferiore ai 45 metri quadrati. La città si chiude a riccio e lo fa operando una forma di esproprio surrettizio. Nel dibattito pubblico, è poi costante la condanna di quei negozi che vendono souvenir al turista di passaggio e nei giorni scorsi un invito a ribellarsi contro il proliferare dei negozi-paccottiglia è venuta dalla stessa Ottavia Piccolo, nota attrice e veneziana d’adozione. E non è escluso che tra qualche anno molti di questi negozi saranno davvero costretti a chiudere.

 

Il 3 agosto scorso un articolo del “New York Times”, accolto con entusiasmo in laguna, ha descritto Venezia come una città invivibile, sommersa dai turisti e da insulsi negozietti, in cui non è più possibile comprare il prosciutto dalla salumeria della propria infanzia (che ha chiuso) e in cui i b&b si moltiplicano. La ricetta sottesa a questa rappresentazione catastrofica era chiara ed era a base di regole, divieti, imposizioni e via dicendo.

 

C'è la necessità che Venezia riscopra quel legame fondamentale che collega libertà, proprietà e voglia di innovare

In linea di massima, il ceto politico – e con esso una larga parte dell’opinione pubblica veneziana di destra e sinistra – vorrebbe che il proprietario destinasse ad affitti ordinari uno spazio che, invece, è più remunerativo se dato ai turisti o usato per attività commerciali. Per giunta, molti nostalgici di una Venezia che non c’è più immaginano il rilancio di questa o quella attività artigianale (seguendo, senza saperlo, logiche pianificatorie fallite ovunque) e non riescono a capire che nessuno sa cosa gli altri dovrebbero fare, né ha diritto di imporglielo: e che buone istituzioni si limitano a garantire libertà d’iniziativa e la migliore tutela della proprietà. Eppure a Venezia ci si illude che la città possa tornare a essere quella del dopoguerra: con fabbri, falegnami, mercerie, calzolai e piccole botteghe. In un un cortocircuito tra postcomunismo e nostalgie reazionarie, tra strategie espropriatrici e sogni di una rinascita fondati sui ricordi del ben tempo che fu, a Venezia si mette costantemente in discussione ogni diritto di proprietà. Non sorprendiamoci, a questo punto, se i problemi si aggravano giorno dopo giorno.

 

Il calo demografico veneziano, senza dubbio, ha molte cause. Una città in cui non è facile trovare lavoro e che quindi spinge spesso a trasferirsi altrove, è comunque pure vittima di politiche che hanno peggiorato il quadro complessivo. Lo spopolarsi della laguna è infatti in rapporto con il vincolismo di una politica che tutto pretende di gestire, organizzare, pianificare, e che ha consegnato la città nelle mani di amministratori e burocrati.

 

Lo scorso novembre alcune associazioni hanno organizzato una manifestazione, Venexodus, per denunciare lo svuotarsi della città. E a fine febbraio i loro rappresentanti hanno incontrato il vicesindaco Luciana Colle (leghista), da cui hanno ottenuto una serie di impegni. Il guaio è che la maggioranza comunale e le associazioni sembrano concordare nel ritenere che più norme, più Stato e più spesa pubblica possano migliorare la situazione.

 

Nell’incontro si è parlato anche del problema delle case pubbliche, ed è stato ricordato che vi sono ben 291 case vuote. 207 sono sfitte, 41 sono in manutenzione e 43 sono in attesa di manutenzione, ma non ci sono i soldi per restaurarle. E’ però evidente che la cattiva gestione del patrimonio statizzato può sorprendere solo gli ingenui e gli sprovveduti.

 

Oltre a ciò, si vorrebbe limitare su Venezia la liberalizzazione riguardante l’affitto breve, nella convinzione che in tal modo il proprietario metterà il bene sul mercato delle locazioni ordinarie. Ne deriverebbe che una città in cui un gran numero di abitazioni è indisponibile (bisognosa di lavori e ristrutturazioni) vedrà affluire ancor meno risorse: e quanti oggi possono immaginare di vivere in città grazie all’affitto di un monolocale che posseggono come seconda casa vedranno venir meno anche questa possibilità. Forse dovranno pure loro andare in terraferma, assottigliando ulteriormente un ceto medio che sta per scomparire, poiché la città è sempre più abitata da una ristretta upperclass e da fasce popolari assistite. Di quei borghesi veneziani intraprendenti e aperti al mondo, le cui virtù Carlo Goldoni esaltò nelle sue commedie, sembra insomma rimanere solo il ricordo.

 

Vincolare l’uso dei beni immobili e difendere la massiccia presenza pubblica nel patrimonio abitativo, contrastando ogni spirito imprenditoriale, può solo accelerare il declino della città. Quando si mina la proprietà, in effetti, si toglie ogni inventivo a fare e investire.

 

Quello che ci vorrebbe, invece, è un progetto che consegni le case pubbliche ai veneziani: e cioè a quanti vivono la città, quale che sia la loro origine. C’è soprattutto la necessità che Venezia riscopra quel legame fondamentale che collega libertà, proprietà e voglia di innovare: ciò che insomma ha fatto grande tale città, davvero unica al mondo.

 

Uno dei problemi principali è il gran numero di immobili pubblici: 12 mila, di cui la metà sono proprietà del comune

La cessione delle abitazioni permetterebbe di creare un capitale consistente, che potrebbe essere usato per sostenere in forma provvisoria le famiglie bisognose, permettendo loro di trovare una casa sul libero mercato. In tal modo si porrebbe fine alla querelle riguardante il limite di reddito (oggi alto: superiore ai 100 mila euro) che consente di rimanere in una casa popolare anche dopo avere perso i titoli ad averla. Oggi si vuole abbassare a 30 mila euro quel limite, ma ciò comporterà una conflittualità crescente, dato che si dovrà sfrattare chi ha un poco migliorato la propria condizione, ma non è detto che – anche con un reddito leggermente superiore – possa facilmente trovare una soluzione alternativa. Il socialismo non funziona: bisogna prenderne atto, anche quando si parla di case.

 

Il turismo non è (solo) un problema. E’ un capitale da valorizzare

 

Bisognerebbe capire che, a Venezia come altrove, non esiste un problema “abitativo”. Esiste, semmai, un problema “economico”, che si può risolvere migliorando la condizione generale della popolazione: grazie a investimenti, nuova imprenditoria e iniziativa privata, ma anche intervenendo a sostegno delle famiglie in difficoltà: specie se questi aiuti sono espressione della società civile, e non di apparati politici.

 

E un primo modo per iniziare a migliorare la situazione finanziaria di tanti veneziani, che devono far fronte a elevati canoni di locazione, potrebbe essere quello di valorizzare il turismo non già per consegnare altre risorse agli apparati burocrati, ma invece prendendo atto che l’invasione quotidiana dei visitatori che intasano le vie di passaggio comporta un danno che merita una compensazione.

 

D’altra parte, con sempre più insistenza si parla d’introdurre un biglietto d’ingresso anche per quanti restano in città solo poche ore. Va ricordato che nella città approdano più di 20 milioni di turisti ogni anno, di cui due su tre non pernottano.

 

L’obiettivo di un “biglietto d’ingresso” generalizzato (non solo a carico di chi pernotta in albergo) è duplice: da un lato, s’intende ridurre il numero di quanti arrivano e, oggettivamente, rendono difficile ogni attività; dall’altro, si punta a recuperare risorse. Ma su questo secondo punto, ancora una volta, nemmeno si prende in considerazione l’ipotesi di evitare soluzioni che rafforzino il potere politico e consegnino nelle sue mani pure questi soldi.

 

Viceversa, sarebbe opportuno immaginare che l’invasione dei turisti fosse gestita un po’ come la rendita del petrolio in Alaska. Nello stato americano, infatti, la tassazione sui redditi è nulla o quasi in virtù del fatto che si considerano gli abitanti di questo territorio come i comproprietari dell’oro nero. Analogamente, si potrebbero considerare i veneziani quali contitolari delle calli e dei campielli, operando di conseguenza una redistribuzione delle risorse ottenute.

 

Lo spopolarsi della laguna è in rapporto con il vincolismo di una politica che tutto pretende di gestire, organizzare, pianificare

Già oggi molti soldi sono versati da quanti vanno a Venezia: dalla zona ZTL alla tassa di soggiorno, al vaporetto (che costa al foresto ben 7,5 euro, mentre solo 1,5 a chi dispone alla Carta Venezia). Ma queste entrate dovrebbero andare direttamente a compensare i cittadini, che subiscono tale “inquinamento” quotidiano. È difficile dire quanto potrebbe rendere, a Venezia, un biglietto d’accesso gravante su ogni visitatore, ma se si adotta la tariffa ipotizzata dai Cinque stelle (che hanno ipotizzato una cifra di 3 euro) si possono ragionevolmente immaginare entrate complessive dell’ordine dei 50/60 milioni di euro all’anno.

 

Che fare con questi soldi? Di solito viene suggerito di utilizzarli per la manutenzione pubblica della città: e questo non sorprende, perché una città sempre più statizzata e in mano ai partiti ha bisogno di quantità crescenti di risorse. Soltanto invertendo la logica e immaginando che la città sia riconsegnata ai suoi proprietari si può pensare che i proventi del biglietto di accesso vadano alle famiglie.

 

Se tali entrate fossero destinate ai singoli veneziani ognuno potrebbe ricevere una somma dell’ordine di mille euro. In sostanza, a una famiglia di quattro persone andrebbe un contributo annuo, a compensazione dell’invasione turistica, di circa 4 mila euro: una somma che potrebbe aiutare a bloccare l’esodo e che potrebbe perfino invogliare qualche veneziano già trasferitosi a Mestre a fare marcia indietro.

 

Ovviamente, una simile ipotesi è oggi assente dal dibattito. Nessuno ha finora ipotizzato che siano i veneziani stessi, e cioè quanti subiscono in prima persona i fastidi connessi alle presenze turistiche, a essere i beneficiari del biglietto d’ingresso. E il motivo è chiaro: Venezia ha quasi del tutto perso ogni sua vocazione alla libera impresa, è prigioniera di una mentalità burocratica, e rappresenta sempre più – fatta eccezione per il turismo e per le libere professioni – un conglomerato di attività variamente statali (sanità, università, regione, scuola, ecc.) il quale continua a investire in logiche politiche.

 

Dare direttamente alle famiglie il ricavato della tassa di soggiorno e dell’analogo tributo per i turisti giornalieri significa scommettere sulla vitalità sociale: sugli individui più che sulle burocrazie, sulle famiglie più che sullo Stato.

 

Perché sia accolta l’idea d’introdurre una sorta di “pollution tax” che finanzi i residenti a Venezia è insomma necessario che la città capisca che può essere salvata solo da chi la vive: guardando ai veneziani come a individui attivi, proprietari responsabili, imprenditori potenziali di una vera rinascita, e non già semplice oggetti di politiche redistributive, piani territoriali, tasse e regolamentazioni. Ma riuscirà Venezia a riscoprire quel suo spirito avventuroso che un tempo la rese grande? La scommessa è tutta qui.

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