Modernità e salari fermi. Indagine sulla scomparsa dell'inflazione

Renzo Rosati

Il Ft parla di “enigma”, il Wsj invita a lasciarla perdere e un po' ovunque ci si chiede se inseguire l'aumento dei prezzi abbia ancora un senso per le Banche centrali

Roma. Oggi la Federal Reserve annuncia se lascerà i tassi d’interesse all’1-1,25 per cento (come molti si aspettano), rinviando magari a dicembre il rialzo di 25 punti base, o se accelererà il tapering – il ritiro del denaro facile – annunciato da tempo dalla presidente, in scadenza, Janet Yellen. La decisione è al solito condizionata dall’andamento dell’inflazione, il cui obiettivo per la Banca centrale americana è il 2 per cento, come per la Banca centrale europea. Ma, sempre come in Europa e nel resto del mondo industrializzato, negli Stati Uniti ci si chiede se questo target abbia ancora senso.

 

L’inflazione americana ha raggiunto a luglio il 2 per cento, ma depurata del prezzo del petrolio e dei generi alimentari base, si ferma all’1,4. Poco per un’economia cresciuta nel secondo trimestre del tre per cento, con disoccupazione al 4,4 e dollaro debole. Né va diversamente appunto in Europa. I rinvii di Mario Draghi nel porre fine al Quantitative easing è determinato proprio dall’inflazione dell’area euro, ad agosto all’1,5 per cento, con la Germania, paese in piena salute, all’1,8 per cento: ma anche qui con il traino dei prodotti energetici. Dunque che fine sta facendo il vecchio caro-prezzi, ora che la crisi è alle spalle?

 

Secondo il Financial Times c’è “Un enigma inflazione”: i mutamenti produttivi proprio dell’ultimo decennio, a partire dalla digitalizzazione, hanno stravolto sia la struttura dei prezzi sia la propensione al consumo. Mentre sul Wall Street Journal un’analisi di William Isaac, ex presidente di Federal deposit insurance (l’agenzia federale di controllo del risparmio), e Richard Kovacevich, ex ceo di Wells Fargo, invita la Fed e tutte le altre Banche centrali a lasciar perdere l’inflazione come obiettivo principale delle loro politiche, concentrandosi piuttosto su altre componenti dell’economia reale. Diversamente, come suggerisce Claudio Borio, capo economista della Banca dei regolamenti internazionali, l’èra dei tassi a zero potrebbe non finire mai. Anche la storia insegna. Negli anni 70 e 80 in America e Italia l’inflazione era a doppia cifra, il che portava a emettere titoli pubblici che nel caso dei Bot italiani toccarono il 25 per cento. Negli anni 90 l’inflazione italiana è stata in media del 3,6 per cento, ma partendo dal 6,5 per approdare all’1,7. Nei 2000 è scesa al 2,2, con impatto dell’euro (pur con gli scarsi controlli nei negozi) quindi molto enfatizzato. In Germania le medie sono state di un punto inferiori, negli Stati Uniti lievemente superiori, con ricette anticrisi molto diverse.

 

Dunque prendere l’inflazione come primo termometro della salute economica è in effetti arduo: vale al massimo nelle fase di recessione mondiale (è stata a zero per tutti nel 2009), ma non nella normalità. Secondo una ricerca di Adobe Analytics, riportata dal Financial Times, a tener bassa l’inflazione sono anche le vendite online: particolarmente per il mobilio, i casalinghi e gli articoli sportivi, i cui prezzi sul web si sono ridotti del doppio rispetto al calo registrato nei canali tradizionali. Ciò che ha anche portato in bancarotta la catena americana di giocattoli Toys “R” Us. Secondo Goldman Sachs l’e-commerce, che in America e Germania vale l’8 per cento del totale delle vendite, ha lo stesso effetto che ebbero decenni fa l’avvento dei grandi magazzini, poi dei supermercati e degli ipermercati; e dunque il trend è destinato ad aumentare e stabilizzarsi. Ma studi dell’Ocse e della Stanford University indicano anche la digitalizzazione dei processi produttivi, che riduce i costi industriali intermedi, e comprime i salari, particolarmente per le aziende dell’indotto. Le stesse minute della Fed parlano di stipendi medi in calo negli Stati Uniti, mentre in Europa l’austerity ha bloccato in molti paesi, Italia compresa, le rivalutazioni automatiche di stipendi e pensioni tipiche del nostro welfare. “I redditi di molti americani sono fermi – scrivono Isaac e Kovacevich – e fin qui si salvano grazie a prezzi e interessi bassi. Augurarsi che aumentino i primi per alzare i secondi non appare molto sensato”.

Di più su questi argomenti: