L'azzardo di una manovra elettorale

Redazione

Meglio prepararsi alla fine del Qe che adescare voti con più spesa pubblica

A oltre sei anni dall’inizio delle misure non convenzionali della Banca centrale europea, l’azione del Quantitative easing come agente narcotizzante delle spinte centrifughe dell’Eurozona è stata ampiamente assolta e raggiunta. Secondo l’ultimo Ebi della Sentix, soltanto l’8 per cento dei mille manager interpellati mensilmente ritiene probabile l’uscita di almeno un paese dall’area euro nel prossimo anno. Le tempistiche della riduzione degli stimoli inaugurati nel mandato di Mario Draghi verranno probabilmente discusse a settembre e ottobre. L’obiettivo della Bce di un tasso di inflazione di fondo vicino al 2 per cento è però ancora lontano ed è un fattore che può ritardare la moderazione degli acquisti di titoli pubblici, il “tapering”.

 

Dal punto di vista dei governi dell’area euro, e in particolare di quello italiano, sarebbe imprudente temporeggiare e attendere che la Bce assesti le sue scelte cullandosi nell’attuale miglioramento congiunturale dei dati economici. E’ quindi opportuno chiedersi quale sia l’obiettivo della prossima legge di Stabilità: le elezioni 2018 o la fine del Quantitative easing nello stesso periodo? Ovvero se cedere alla tentazione di adescare consenso, magari con misure spostate sull’ambito pensionistico, ergo maggiore spesa pubblica, oppure se prepararsi, con responsabilità, a quando la Bce non farà più da tutore. Il ritorno alla normalità della politica monetaria comporta un ritorno alle ben note preoccupazioni degli investitori e delle agenzie di rating verso l’Italia: high debt levels.

 

Il rapporto debito/pil è sostanzialmente stabile al 134 per cento. La crescita del pil nel 2017 (tra l’1,3-1,5 per cento secondo diverse stime) può essere un sollievo su cui però non si può fare affidamento. Il tasso di espansione massimo che l’economia italiana può raggiungere in modo stabile resta infatti deprimente. Per Fitch la crescita potenziale è dello 0,4 per cento a causa del persistente calo della produttività registrato negli ultimi dieci anni, in coda rispetto alle economie avanzate. Non si vede una inversione di rotta, dice l’agenzia di rating. Bisogna rendersi conto che l’economia italiana è divisa in due: tra aziende del settore pubblico allargato, vicine alla politica, con un processo produttivo inefficiente, e un’altra parte di imprese private, dove la produttività in genere non va male (anche se rimangono mediamente sottodimensionate e sottocapitalizzate). Concedere a privati la gestione di società pubbliche periclitanti – come il referendum dei Radicali propone di fare con l’Atac, un inizio – risolverebbe una parte del problema.

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