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Perché sulle nozze cinesi di Fiat l'Italia non ha voce in capitolo

Ugo Bertone

Tra smentite e boom in Borsa, la prospettiva di un socio asiatico per Fca (senza "spezzatino") non è assurda. Ma decide Trump

Milano. Dalla Cina per ora piovono solo smentite. Geely, il colosso di Shanghai che controlla con ottimi risultati la svedese Volvo (utili raddoppiati quest’anno in attesa del boom dell’auto elettrica), fa sapere di non essere interessata a Jeep o tanto meno a Fiat-Chrysler Automobiles (Fca). Così come gli alti gruppi più ruspanti dell’auto made in China. Fca ostenta un “rumoroso silenzio”. Eppure nessuno dubita che ci sia del vero dietro lo scoop estivo di Automotive News: uno o più gruppi cinesi, potenza emergente dell’Auto, sta corteggiando Fca, per ora recalcitrante (per questioni di prezzo più che altro) con l’obiettivo dichiarato di sbarcare – in un solo colpo – sul mercato americano, italiano e, non ultimo, brasiliano. Un’opportunità unica anche perché Fca è comunque riuscita a inserire almeno un piede nella danza dei giganti dell’Auto del futuro.

 

Alla collaborazione con Google nell’auto a guida autonoma si è aggiunto infatti ieri, sempre a proposito delle tecnologie driverless, l’asse con Bmw, Intel e il gioiello israeliano Mobileye, comprato a peso d’oro da Intel. Complice il minor peso dei debiti, Fca gode finalmente di un certo appeal, almeno le Borse ci credono, sia a Milano sia a Wall Street. Lo strappo di lunedì, che ha vivacizzato sale operative semivuote, poteva essere considerato un caso fortuito, maturato in una seduta dai volumi sottili. Ma il trend continua tra scambi robusti. In due sole sedute il titolo Fca ha messo a segno un rialzo largamente superiore al 10 per cento, balzando a quotazioni che non si vedevano da dieci anni.

 

Difficile, a questo punto, pensare a una bufala. Semmai si è di fronte ad una bomba politica ancor più che economica. Sia in America sia in Italia dove, per la verità, non sembra ci siano troppi appigli per influire sull’eventuale scelta di John Elkann di vendere – con l’eccezione di Maserati e Alfa – gli asset di Fiat che oggi risulta essere una società che ha sede legale in Olanda, residenza fiscale nel Regno Unito e realizza la maggior parte della produzione e dei profitti in nord America. Per questo Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl in un suo intervento fa appello alla saggezza dei vertici perché respingano quella che “industrialmente sarebbe una follia”. “Un conto – dice il sindacalista – è consolidarsi a livello mondiale in alleanza con player con  grande capacità finanziaria e industriale, altro è cedere gran parte del gruppo per mantenere Alfa Romeo e Maserati. Questa seconda ipotesi  non sta in piedi, avrebbe pesanti ricadute su molti stabilimenti italiani”. Un parere legittimo, ma debole: in questo caso, probabilmente, nemmeno la legge che Carlo Calenda sta mettendo a punto per proteggere l’industria italiana dallo shopping di Pechino potrebbe servire a proteggere l’identità di un gruppo che, pur avendo un grande valore per la bilancia commerciale e per la produzione industriale tricolore, italiano non è più.

 

La vera partita politica in questo caso si giocherà, se si giocherà, a Washington. Un eventuale acquisto di Fca dovrà ricevere il via libera del Cfius, organismo americano di cui fanno parte i rappresentanti di nove ministeri, che deve valutare le operazioni di compravendita sul territorio degli Stati Uniti. Ovvero le avances cinesi a Marchionne, che per due anni ha cercato invano di maritare il gruppo con General Motors, dovranno passare al vaglio di Donald Trump che proprio in questi giorni ha riaperto il dossier delle sanzioni contro Pechino, accusata di violare le regole della proprietà intellettuale. Non sembra il momento ideale per lo sbarco dell’industria dell’Auto di Pechino negli Stati Uniti. Anzi, c’è chi ipotizza la “bomba” di Ferragosto possa aver l’effetto di rilanciare l’alleanza tra Gm e la possibile “preda” Fca. Andrà così? Nulla, a questo punto, si può escludere. Nemmeno che Trump, a sorpresa, apra ai pretendenti in arrivo da oriente. Purché i manager in arrivo da Pechino portino investimenti e nuovi posti di lavoro. Una prospettiva ben più allettante dei tagli che probabilmente, accompagnerebbero le nozze tra Marchionne e Mary Barra, ceo di Gm. E’ la globalizzazione, signori.