Urbano Cairo e Jean Pierre Mustier (montaggio da foto LaPresse)

L'anno dei capitali coraggiosi

Claudio Cerasa

Il passaggio graduale dell’economia italiana dai “capitani coraggiosi” ai “capitali coraggiosi” è testimoniato dalle storie di Cairo e Mustier. Perché, a un anno dal loro arrivo a Rcs e Unicredit, oggi il nostro capitalismo ha meno salotti e più mercato

All’inizio dell’estate del 2016, ovvero più o meno un anno fa, il mondo del capitalismo italiano si è ritrovato improvvisamente di fronte a due nomi che per ragioni diverse coincidevano con la storia di due grandi scommesse per l’economia italiana. Il primo nome era quello di Urbano Cairo, diventato presidente e amministratore delegato di Rcs Media Group dodici mesi fa: il 3 agosto. Il secondo nome era quello di Jean Pierre Mustier, diventato amministratore delegato di Unicredit giusto pochi giorni prima: il 12 luglio. All’inizio del loro percorso nelle rispettive aziende, sia Urbano Cairo sia Jean Pierre Mustier vennero osservati da buona parte della comunità finanziaria italiana con uno sguardo, o meglio un ghigno, che era a metà tra la fiducia e l’illusione. La fiducia era legata al curriculum senza dubbio impeccabile di entrambi i soggetti, mentre l’illusione era legata all’esito niente affatto scontato delle rispettive missioni. Urbano Cairo aveva il compito di fare quello che i precedenti soci di Rcs non avevano avuto la forza e il coraggio di realizzare, ovvero ristrutturare con una cura lacrime e sangue l’azienda che edita il Corriere della Sera, con un nuovo e ambizioso piano industriale capace di rimettere in ordine i conti di Rcs.

 

Jean Pierre Mustier aveva invece il compito di fare quello che in pochi pensavano che sarebbe stato possibile realizzare, specie in una fase storica in cui il sistema bancario italiano veniva descritto come il grande malato d’Europa. Il suo compito era quello di rimettere in pista una delle principali banche italiane attraverso un piano industriale fatto di sacrifici, risparmi e un nuovo aumento di capitale. Dodici mesi dopo, nonostante la diffidenza iniziale e le sopracciglia rialzate, Urbano Cairo, che oggi si trova al 60 per cento di Rcs, ha raggiunto risultati importanti. A maggio del 2016, prima del suo arrivo, ogni azione della sua futura azienda valeva appena 0,57 centesimi. Oggi, a poco più di un anno della sua offerta pubblica di scambio, ogni azione di Rcs vale quasi tre volte di più (1 euro e 33 centesimi) e a tredici mesi dal suo arrivo il suo gruppo è tornato a presentare una semestrale in utile, cosa che non accadeva da nove anni. Dodici mesi dopo, nonostante la diffidenza iniziale e le sopracciglia rialzate, anche Jean Pierre Mustier ha raggiunto risultati importanti.

A marzo il manager francese ha messo a segno il più grande aumento di capitale mai visto nella storia di Piazza Affari trovando capitali pari a 13 miliardi di euro, con un’operazione che ha permesso alla Borsa italiana di portare il suo indice al livello più alto tra le altre Borse d’Europa (da inizio anno l’indice Ftse-Mib ha ottenuto un attivo pari al 12,8 per cento, superando di misura l’indice della Borsa, oggi a quota +12,55 per cento). Pochi mesi dopo lo stesso Mustier ha visto chiudere la sua semestrale con un utile di 1,9 miliardi di euro, una crescita del 40,2 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno e un numero sempre più importante di crediti deteriorati (Npl) venduti sul mercato (a luglio Unicredit ha venduto a Pimco e Fortress un pacchetto pari a 17,7 miliardi di euro, quasi un quinto della somma totale di Npl che dovrebbero essere venduti da qui a fine anno dalle banche italiane, quota stimata a 104 miliardi di euro).

 

Le buone performance di Urbano Cairo e di Jean Pierre Mustier non hanno solo un valore dal punto di vista numerico, ma hanno un valore importante anche dal punto di vista simbolico. E sotto vari aspetti, possiamo dire che le storie di Cairo e Mustier sono lì a certificare un fenomeno sul quale vale la pena soffermarsi e che corrisponde al passaggio lento e graduale del capitalismo italiano dalla fase dei capitani coraggiosi a quella dei capitali coraggiosi. L’espressione “capitani coraggiosi”, come molti ricorderanno, è una frase che fu utilizzata alla fine degli anni Novanta per descrivere una grande operazione di sistema, sponsorizzata dall’allora premier Massimo D’Alema, che portò alla guida di Telecom Emilio Gnutti e Roberto Colannino – e per anni quell’espressione ha coinciso con l’idea di un capitalismo all’interno del quale gli ingranaggi del capitalismo relazionale avevano un peso superiore rispetto agli ingranaggi del capitalismo industriale.

 

Il passaggio da capitani coraggiosi a capitali coraggiosi, testimoniato in questo caso dalle figure di Cairo e Mustier, indica una svolta proprio sotto questo profilo. Per la prima volta da molti decenni, Rcs ha un capo azienda che, pur avendo legami importanti con alcuni campioni del capitalismo di relazione (vedi Giovanni Bazoli), non ha scelto di muoversi come un vigile urbano che smista il traffico creato da azionisti in continuo conflitto tra loro, ma ha scelto di muoversi come un editore puro, scommettendo dunque più sulla valorizzazione dei capitali che sulla valorizzazione dei capitalisti del gruppo. La traiettoria di Cairo andrà giudicata nel tempo e solo gli anni ci potranno dire se un giornale come il Corriere della Sera può permettersi di essere amministrato con la stessa logica di un rotocalco o una televisione privata. E allo stesso modo ci vorrà tempo per giudicare fino in fondo il lavoro di Mustier – da quando è alla guida di Unicredit, il titolo della banca ha subìto oscillazioni importanti: è partito da un valore di 18,73 euro per azione, a febbraio prima dell’aumento di capitale è precipitato a quota 12 euro e oggi è in veloce risalita e si aggira attorno ai 17,43 euro – ma dalle intenzioni messe in campo dal capo di Unicredit l’impressione è che anche una delle più grandi banche italiane sia pronta a colpire al cuore uno degli ultimi simboli del capitalismo di relazione del nostro paese.

Qualche giorno fa, Mustier ha commentato alcune indiscrezioni dei giornali e ha confermato che nei prossimi mesi Unicredit (primo azionista di Mediobanca, a sua volta primo azionista di Generali) lavorerà per rendere “più indipendenti” le Generali. Rendere “più indipendenti” le Generali significa promuovere un processo di smantellamento della complicata catena di controllo che fa di Unicredit, via Mediobanca, il controllore delle assicurazioni di Trieste. L’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, che secondo molti osservatori si muove in perfetta sintonia con il capo di Unicredit, ha confermato l’impegno a scendere dal 13 al 10 per cento di Generali entro il 2019, ma secondo una ricostruzione di Repubblica firmata da Andrea Greco l’intenzione di Mediobanca è in realtà quella di scendere addirittura sotto il sette per cento. Smantellare gli ingranaggi che da una vita muovono il motore di Generali non significa solo superare alcune logiche del capitalismo di relazione (anche se nell’ambito del capitalismo di relazione la storia Generali è certamente una delle poche di successo) ma significa piuttosto mettere sul mercato un pezzo importante di una delle più grandi aziende italiane.

 

Qualcuno potrebbe dire che far finire Generali sul mercato, orrore, potrebbe essere un rischio molto grave per “il sistema paese”, dato l’interesse mostrato da tempo da alcuni colossi stranieri, in primis i francesi di Axa, sulla nostra compagnia assicurativa. Lo stesso ragionamento, a proposito di “invasione” dei francesi, si era fatto un anno fa quando arrivò Mustier alla guida di Unicredit. Un anno dopo l’arrivo di Mustier i risultati sono quelli che sappiamo. Unicredit è stata premiata dagli apprezzati analisti di Euromoney come la migliore banca d’Italia. La ricapitalizzazione di Unicredit ha fatto volare la Borsa del nostro paese. L’azione di Mustier ha contribuito a risanare l’immagine del sistema bancario italiano. Se l’invasione è questa, beh, allora avanti il prossimo.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.