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Una flat tax di sinistra

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

In Italia, dove lo stato è inefficiente, la semplicità riduce la diseguaglianza

Cosa è più di sinistra: un sistema tributario con aliquote formalmente progressive, oppure uno che – attraverso una sapiente combinazione di tasse e trasferimenti – riesce a ridurre la povertà e la diseguaglianza? La proposta dell’Istituto Bruno Leoni, di una flat tax al 25 per cento abbinata a un “minimo vitale”, sembra avere le carte in regola per raddrizzare molte delle storture italiane.

 

Per capirlo, bisogna anzitutto partire da due numeri: 1,4 e 11,8. L’Italia ha una diseguaglianza dei redditi prima delle tasse e dei sussidi tra le più basse dell’Unione europea, più di 3 punti sotto la media, ma la diseguaglianza tra i redditi disponibili, ovvero dopo l’intervento redistributivo dello stato, è di 1,4 punti al di sopra (l’indice di Gini è pari a 32,4, contro una media Ue di 31). E questo nonostante la presenza statale in termini di tasse e spesa sia molto forte. Quello italiano è un modello unico in Europa, non a caso non imitato da nessuno, fatto di pressione fiscale scandinava e disuguaglianza anglosassone.

 

Per dirla con le parole dell’Istat: in Italia la capacità redistributiva dell’intervento pubblico è tra le più basse nei paesi europei. Parte della spiegazione va cercata nella massa dell’economia sommersa, stimabile nell’11,8 per cento del pil, di cui le componenti principali sono la sotto-dichiarazione (6,9 punti percentuali) e il lavoro irregolare (5,0). Questi due fenomeni hanno una radice comune: la complicazione del fisco e l’eccesso di regole, fotografati, rispettivamente, dall’indicatore Paying taxes del rapporto Doing Business (che ci vede al centoventisettesimo posto) e dall’indice della libertà economica della Heritage Foundation (dove siamo settantanovesimi).

 

In un certo senso, anche in campo tributario la maledizione italiana va cercata nella costante contraddizione tra forma e sostanza: la chiarezza del dettato costituzionale (“il sistema tributario è informato a criteri di progressività”) si è tradotta in una compliance formale (con aliquote fortemente progressive, dal 23 al 43 per cento) ma effetti redistributivi limitati e dovuti in larga misura agli effetti del sistema pensionistico. A sua volta, ciò comporta due conseguenze: in primo luogo, la progressività delle aliquote è mitigata dalla marea di eccezioni fiscali (la Commissione per le spese fiscali ha censito 444 tax expenditures) oltre che da evasione ed elusione. Secondariamente, poiché il principale strumento redistributivo è dato dalle pensioni, i giovani – che tipicamente hanno redditi inferiori – sono doppiamente penalizzati, perché non godono di alcuna forma di sostegno al reddito e perché devono finanziare la previdenza attraverso il cuneo fiscale più alto d’Europa. L’Italia, in pratica, non riesce a catturare il beneficio delle aliquote progressive (la redistribuzione) mentre ne paga per intero il costo: il disincentivo a produrre e dichiarare i redditi.

 

Inoltre tutte le altre principali imposte, che si applicano su differenti basi imponibili o su altri tipi di redditi, hanno già aliquote piatte. L’Irpef è un’imposta importante, ma rappresenta una fetta della torta più piccola rispetto al passato. In questo modo la reale progressività del nostro sistema tributario si scarica quasi interamente sui lavoratori dipendenti con redditi medi: infatti la progressione delle aliquote si ferma alla soglia dei 75 mila euro di reddito, oltre cui l’aliquota diventa piatta, ovvero flat, ancorché molto alta. Il risultato è che i contribuenti con redditi inferiori ai 35 mila euro versano il 45 per cento dell’imposta netta, mentre i (pochi) soggetti con reddito (dichiarato) superiore ai 300.000 euro ne pagano appena il 5,1 per cento. La fascia più colpita dall’attuale sistema è quella dei cittadini con redditi tra i 35 e i 70 mila euro: numericamente rappresentano il 12 per cento della platea dei contribuenti, ma si fanno carico del 26 per cento dell’Irpef.

 

Data l’estrema complessità e la sostanziale inefficacia della macchina pubblica, è difficile trovare una soluzione attraverso piccoli aggiustamenti: per recuperare un antico slogan renziano, ci vuole il trapano, non il cacciavite. Fuor di metafora, l’Italia deve mettere mano al fisco seguendo tre direttrici. Primo: semplificare radicalmente il sistema. Secondo: accompagnare la riduzione del carico fiscale con un allargamento della base imponibile, attraverso il disboscamento della foresta di deduzioni, detrazioni e agevolazioni riservate a individui e imprese. Terzo: premere l’acceleratore sul contrasto alla povertà, portando a pieno compimento un cambiamento di paradigma.

 

Infatti, il nostro paese ha tentato (e fallito) la redistribuzione dal lato del prelievo, ma questa non è l’unica strada. Tre economisti dell’Ocse (Isabelle Joumard, Mauro Pisu e Debbie Bloch) alcuni anni fa hanno passato in rassegna le politiche redistributive delle nazioni sviluppate, trovando un risultato non sorprendente ma molto significativo per l’Italia: “I trasferimenti monetari riducono la dispersione dei redditi molto più delle tasse nella maggior parte dei paesi Ocse. In media, i tre quarti della riduzione della diseguaglianza tra i redditi di mercato e i redditi disponibili sono dovuti ai trasferimenti, il resto alle tasse”. Questo è particolarmente vero per le economie dove il settore pubblico è relativamente inefficiente (e quindi fatica a gestire strumenti selettivi) e dove l’evasione fiscale è elevata. Sembra proprio l’identikit dell’Italia. Tale logica, a ben vedere, non implica una novità assoluta: una delle principali misure di politica economica del governo Renzi, gli 80 euro, va esattamente in questa direzione, anche se si focalizza su una platea ridotta (quella dei lavoratori dipendenti). Si tratta di accoglierne il principio ed estenderlo in maniera universalistica, fino a fare dei cash transfer il principale motore di redistribuzione, assieme all’utilizzo delle politiche attive del lavoro e della formazione per garantire uguaglianza nelle opportunità e combattere non solo la povertà ma anche la disoccupazione e lo skill mismatch. All’interno di questo paradigma il contrasto alla povertà può essere legato a indicatori più complessi e affidabili rispetto al reddito dichiarato: per esempio l’Isee che, tenendo conto anche del patrimonio (oltre che della composizione famigliare), risente molto meno delle pratiche elusive ed evasive.

 

Tutto ciò presuppone l’impiego di un enorme capitale politico, perché implica ruotare il rapporto tra il sistema tributario e il cittadino e ripensare il ruolo stesso dello stato. Per arrivare all’esito socialmente ottimale – meno tasse, meno evasione, più incentivi a lavorare – occorre scontentare tutti i gruppi e gruppuscoli che beneficiano dell’attuale situazione. Che sono anzitutto i contribuenti a più alto reddito (che hanno mille modi, complice un buon avvocato, per eludere la rapacità del fisco) e poi le infinite lobby che traggono vantaggio da ogni singola spesa fiscale. Ma si tratta di un investimento ad alto rendimento: in palio c’è non solo una società più equa, ma anche una società più prospera.

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