Paolo Gentiloni, Emmanuel Macron e Jean Claude Juncker (foto LaPresse)

L'unica nostra alternativa è crescere

Carlo Calenda*

Basta inutili dibattiti tra declinisti e trionfalisti. Serve un piano industriale per riagganciare i grandi paesi europei e concentrare ogni euro disponibile su imprese e competitività. E serve il supporto del Pd per spronare la classe dirigente

Il bel reportage di Marco Fortis sul vostro giornale mette in luce, finalmente, i tanti punti di forza che abbiamo soprattutto nell’export e nell’innovazione. Un pezzo di paese ha agganciato la domanda internazionale e sta accelerando sulla strada della crescita. Il merito va a tanti straordinari imprenditori e professionisti ma anche ai provvedimenti pro crescita del Governo Renzi e di quello Gentiloni. Il punto però è che questa porzione d’Italia resta troppo limitata e non riesce a trascinare con sé il resto del paese.

 

Il divario, che va crescendo, tra vincenti e perdenti, innesca quotidianamente l’inutile dibattito tra “declinisti” e “trionfalisti”, con annessa strumentalizzazione di ogni nuovo dato su occupazione, crescita, produzione industriale, e via andando. La realtà è che ormai le medie nazionali sono poco rilevanti. Sta riemergendo una “questione settentrionale”, per ora solo economica e sociale, che rischia però di ritrovare in autunno una dimensione politica. Il paese ha solo parzialmente “cambiato verso”, e permangono molte fragilità e anomalie che frenano lo sviluppo. Ammetterlo non vuol dire sminuire il lavoro fatto, ma al contrario renderlo più credibile e porre le basi per poterlo proseguire e rafforzare, cogliendo l’obiettivo di riagganciare definitivamente l’Italia agli altri grandi paesi europei. In caso contrario la prossima legislatura potrebbe portare ad una implosione della seconda Repubblica, dovuta a rischi interni, tra i quali l’aumento dei divari e la singolare composizione del sistema politico, ed esterni. Questi ultimi apparirebbero evidenti a tutti se alzassimo lo sguardo da un’inutile campagna elettorale preventiva permanente.

 

L’Occidente è diviso come mai è stato prima. Se si manifestasse un nuovo rischio Italia difficilmente potremmo contare sul sostegno USA, come accadde durante l’ultima crisi dei debiti sovrani. Né tantomeno possiamo pensare che Macron tutelerà l’interesse dell’Italia in Europa. Dal punto di vista finanziario la fine del quantitative easing, per quanto progressiva e “morbida”, sarà per noi il “momento della verità”. Divertiamoci pure a discutere sulla fine del Fiscal Compact, che è evidentemente superato dagli eventi, ma il punto è un altro: convincere gli investitori a darci spazi di manovra per varare provvedimenti a favore della crescita. Dopo la chiusura della rotta Balcanica, siamo poi diventati il principale punto di ingresso dei migranti in Europa, e ciò rafforza la percezione del paese come anello debole, non solo finanziario, del continente. E’ per noi indispensabile portare l’Europa a varare finalmente quel “migration compact”, presentato dall’Italia ben prima del “piano marshall” per l’Africa prospettato dalla Merkel, che affronta il problema delle migrazioni alla radice, e per il quale occorrono svariati miliardi di euro all’anno, che possono uscire solo dal bilancio comune di un’Europa nuova.

 

Il nostro obiettivo paese deve essere dunque quello di rimanere saldamente dentro la cabina di regia europea portando l’Italia a catturare definitivamente la domanda internazionale di beni, servizi, turismo e cultura. Aumentare il rapporto tra esportazioni e PIL di 20 punti percentuali, come fatto dalla Germania grazie soprattutto alle riforme dell’èra Schröder, implica concentrare ogni euro disponibile su imprese, lavoro e competitività del paese. Importare i tassi di crescita del mondo in un’economia matura con una demografia piatta è una missione congeniale all’Italia, come dimostrano gli ultimi dati sull’export. Dobbiamo sostenere e accelerare questa transizione verso un “modello tedesco”. Il “come” è piuttosto intuitivo e va nella direzione di alcune delle cose fatte negli ultimi quattro anni: sostegno fiscale agli investimenti privati, all’innovazione e all’internazionalizzazione, ampliando il piano industria 4.0 e quello sul Made in Italy, un taglio deciso del cuneo fiscale e contributivo a partire dai giovani, un investimento serio sulla formazione professionale e sulle altre politiche attive, il definitivo superamento di un modello contrattuale vecchio che raramente tiene conto di produttività, welfare aziendale e formazione. Un esempio da estendere può essere quello del contratto dei metalmeccanici. Politiche settoriali dotate di adeguate risorse sono poi necessarie sull’energia, sulle life sciences e sul turismo.

 

Il senso della Strategia Energetica Nazionale è proprio definire i contenuti di uno sforzo consapevole e condiviso indispensabile per evitare gli errori compiuti in passato, ad esempio con i costi esorbitanti sostenuti per gli incentivi a pioggia sulle rinnovabili poi scaricati sulle imprese, e trasformare invece gli obblighi derivanti dagli accordi di Parigi in opportunità per crescita e innovazione. Come ricordato da Fortis le scienze della vita, sono un altro ambito dove l’Italia ha la possibilità di giocarsi una leadership. Questo è il settore che più di ogni altro attrarrà investimenti nel prossimo decennio. Human Technopole potrà essere il catalizzatore di questa sfida soprattutto se integrato dall’Agenzia europea del farmaco e da una nuova governance farmaceutica da varare entro la fine dell’anno. Infine il turismo, dove dobbiamo riprenderci la leadership perduta. Per riuscire abbiamo bisogno di un ambiente molto più concorrenziale e trasparente. Dobbiamo abbandonare l’idea che più concorrenza vuol dire mercato selvaggio, ma allo stesso tempo evitare di prendere una prospettiva opposta, ugualmente ideologica, che trascura le situazioni di fragilità da proteggere o il rispetto delle regole da parte degli altri paesi.

 

Questo “liberismo pragmatico” è quello che ci ha spinto a sostenere, unici in Europa, l’approvazione con procedura europea, per l’accordo di libero scambio con il Canada, ma a schierarci, anche in questo caso per molto tempo da soli, contro l’indebolimento degli strumenti di difesa commerciale. Seguendo la stessa linea dobbiamo essere aperti agli investimenti stranieri che in Italia per fortuna stanno crescendo molto, ma varare un sistema di norme che impedisca quelli predatori effettuati per spogliare le aziende di know how tecnologico da parte di aziende di paesi che non sono aperti come noi agli investimenti stranieri. Affrontiamo un mondo più duro, dove il nazionalismo economico torna prepotentemente alla ribalta. Possiamo rammaricarcene, ma allo stesso tempo dobbiamo essere in grado di difenderci. Per questo è anche necessario offrire protezioni particolari a chi è colpito dal dumping sociale e commerciale: dall’acciaio ai call center. Per riuscire ad implementare questa agenda economica abbiamo bisogno di una governance del paese più adatta a tempi duri e veloci. Perso il referendum abbiamo bisogno almeno di una clausola di supremazia dell’interesse nazionale che consenta di superare i veti locali deve far parte dell’agenda della prossima legislatura. Abbandonando l’idea che la salvezza del paese sia sempre appesa a mega-riforme pensate per rimanere in vigore decenni.

 

La velocità del cambiamento impone un nuovo schema dove la legge definisce il quadro dei principi e degli obiettivi, all’interno del quale l’azione dell’Esecutivo può dispiegarsi in maniera più rapida e flessibile attraverso una costante evoluzione degli strumenti. Quello di una governance efficiente è un problema oggi in tutte le democrazie, ma in Italia è particolarmente sentito perché ci siamo sempre troppo concentrati sulle leggi e troppo poco sulla gestione, che da sola potrebbe risolvere un parte rilevantissima dei nostri problemi, a partire dalla riqualificazione della spesa. Gestione significa capacità di delega, squadra lunga con capacità manageriali e un lavoro sinergico con i corpi intermedi che devono intervenire sia nel disegno delle politiche che nelle iniziative per favorirne l’effettiva ricaduta. Alcuni sindacati e associazioni di imprese hanno già dimostrato di essere pronti a giocare un ruolo diverso rispetto al passato. Esempi di questo cambiamento sono le dichiarazioni di Annamaria Furlan sul populismo sindacale nei casi Alitalia e Almaviva, e il lavoro che le associazioni delle imprese stanno facendo sul territorio con i Digital Innovation Hub. E’ possibile spiegare questa agenda ai cittadini? Sono in grado gli italiani di comprendere la necessità di un percorso articolato e di lungo periodo, per rispondere alle sfide geopolitiche e tecnologiche che giustamente ci spaventano?. Io credo di sì. Anzi dirò di più penso che le politiche “prendi i voti e scappa” non sortiscono più alcun effetto elettorale. La maggior parte degli italiani sa che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi . La crisi ci ha colpito più degli altri paesi europei proprio perché negli anni precedenti si è cercato di vendere ricette estemporanee, mentre leadership, leggi elettorali, e alchimie partitiche occupavano tutto il dibattito pubblico. Sarebbe davvero folle ricadere oggi nella stessa palude. Né tantomeno abbiamo bisogno di Macron all’amatriciana o di nuovi partiti di “illuminati” provenienti dalla società civile. Spetta a tutte le forze “non sfasciste” ma soprattutto al Partito Democratico, al suo Segretario e al Presidente del Consiglio che né è espressione, ricoinvolgere la classe dirigente del paese su un progetto inclusivo e di ampio respiro, che già ha trovato alcuni importanti riscontri nell’azione degli ultimi Esecutivi, ma che stenta a divenire racconto pubblico e visione politica. Per fare questo occorre immediatamente chiudere la fase della rottamazione, soprattutto in termini di comunicazione, metodo di lavoro e gestione della squadra, che ha stancato il paese e indebolito una leadership e un percorso di Governo che hanno più meriti di quelli che oggi vengono generalmente riconosciuti.

 

*Ministro dello Sviluppo economico