No. Sulle banche venete al governo mancano visione e coraggio

Paolo Cirino Pomicino

La scelta della divisione tra good bank e bad bank è tutto un gioco formalistico per bypassare un diktat della commissione europea privo di base giuridica

Al direttore - Come diceva Alessandro Manzoni, il coraggio se non lo si ha nessuno te lo può dare. È il caso dei governi italiani di questi ultimi tempi, in particolare quando si tratta di convincere la Commissione europea su alcune questioni fondamentali. Quando, ad esempio dovemmo affrontare la questione delle quattro banche (Marche, Carife, Carichieti ed Etruria) la mancanza di coraggio nei riguardi della Bce e della Commissione europea fece andare, come si dice, la vicenda in gloria e le quattro banche fallirono bruciando la poca ricchezza di migliaia di risparmiatori.

 

Il contrasto di allora somiglia molto a quello che sta avvenendo oggi sulle due banche venete. All’epoca la Banca d’Italia sosteneva che le quattro banche potevano essere salvate dall’intervento del fondo interbancario cioè con risorse private provenienti dall’intero sistema creditizio. La Bce e la Commissione, al contrario, ritenevano che le risorse del fondo interbancario dovevano considerarsi risorse pubbliche in quanto l’intero sistema creditizio alimentava quel fondo in forza dell’obbligo di una legge. Una strana proprietà transitiva, in verità, che non aveva grandi ragioni giuridiche visto che l’obbligo nasceva proprio in forza del fatto che il sistema creditizio privatizzato finanziasse un fondo a tutela dei depositi e dei risparmi garantiti dalla costituzione con risorse proprie e che peraltro per essere impiegate richiedevano un atto volontario del fondo interbancario. Se quella legge non fu mai contestata in radice in sede europea non poteva poi essere contestata in sede di applicazione.

 

Ma senza addentrarci negli aspetti giuridici, un governo che è forte del parere della propria Banca centrale avrebbe dovuto far intervenire il fondo interbancario e se la Commissione avesse attivata una procedura di infrazione si andava dinanzi alla Corte di giustizia europea per dirimere la questione giuridica sottraendo così tutti alla prassi divenuta convinzione secondo cui gli organi europei sono una sorta di Bibbia quando si tratta di dare interpretazioni ai vari regolamenti o trattati comunitari. Se si fosse fatto, come suggeriva la banca d’Italia si sarebbero salvati migliaia di risparmiatori e in caso di eventuale sconfitta dinanzi alla Corte di Giustizia europea l’Italia avrebbe avuto un danno economico di gran lunga inferiore al danno complessivo che ha registrato lasciando andare in default le quattro banche.

 

Oggi la questione, mutatis mutandis, si ripete con le banche venete per le quali la direzione generale per la concorrenza della commissione europea ritiene che l’intervento dello stato per circa 3,7 miliardi di euro sarebbe possibile se oltre alla trasformazione in azioni delle obbligazioni subordinate per circa un miliardo e oltre ai novecento milioni del fondo Atlante le due banche trovassero ancora un miliardo di euro tra investitori privati. Siffatta interpretazione è fortemente discutibile sul piano finanziario e su quello giuridico e il governo questa volta non può ripetere l’errore fatto all’epoca con le quattro banche del centro Italia. Se il governo ritiene che i soldi stanziati siano sufficienti deve andare avanti ricorrendo poi alla Corte di giustizia europea se la Commissione dovesse avviare una procedura di infrazione. Cosi si faceva in un tempo lontano e l’Italia molte volte fece riconoscere le sue buone ragioni.

 

Qui non si tratta di fare la voce grossa o avere un atteggiamento muscolare nei riguardi degli organi comunitari ma, al contrario, dopo una offensiva di persuasione, se le posizioni restano giuridicamente discordanti, nel breve periodo prevale la posizione dei governi nazionali perché sono essi a comprendere meglio gli effetti generali sull’economia reale e sulla struttura del sistema creditizio del paese piuttosto che i dirigenti delle varie direzioni generali della commissione. Spiace dirlo ma questo è l’abc dell’arte del governare, un’arte che è tale se sa difendere le proprie ragioni in tutte le sedi senza pedisseque subalternità che si addicono ai governi dei paesi colonizzati. Se il sistema creditizio non ha voglia di metterci attraverso il fondo bancario altre risorse il miliardo di euro che servirebbe alla bisogna secondo la Commissione, ove ritenuto necessario, potrebbe essere “polverizzato” chiamando pro quota la cassa depositi e prestiti, le Poste italiane, l’Eni e quanti altri a risolvere il problema. La scelta della divisione delle due banche venete tra good bank e bad bank vendendo a un euro la parte buona a Banca Intesa è tutto un gioco formalistico per bypassare quel diktat della commissione europea priva di base giuridica. Insomma per risolvere questo problema come quelli di ieri ricordati e quelli di domani che certamente si presenteranno serve visione e coraggio, quel coraggio forse smarrito perché da 25 anni, l’Italia affida la guida dell’economia a banchieri d’affari o a banchieri centrali la cui autorevolezza tecnica non potrà mai avere quel peso che solo la politica sa avere nei momenti difficili della vita di un paese. Anzi nella distrazione del Parlamento nazionale i ministri finanziari tecnici spesso fanno passare norme che legano ancor più l’Italia non ai trattati ed ai regolamenti europei ma alle interpretazioni che la burocrazia di Bruxelles dà degli stessi. E pensare che Renzi e Boschi da anni sono attaccati perché avrebbero voluto dato una mano alla Banca dell’Etruria. L’eventuale accusa è proprio di segno contrario. È la confusione purtroppo che regna sovrana e forse è questa la vera crisi dell’Italia di oggi.