AbacaPress

Lezioni dall'addio a General electric di un "globalization man"

Ugo Bertone

Non si può dire che Jeff Immelt, che ad agosto lascerà la guida di General electric (Ge) dopo sedici anni, sia un manager baciato dalla fortuna

Milano. Non si può dire che Jeff Immelt, che ad agosto lascerà la guida di General electric (Ge) dopo sedici anni, sia un manager baciato dalla fortuna. Ha preso possesso della scrivania che fu di Jack Welch il 7 settembre 2001, quattro giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle, il primo grande choc del nuovo millennio. Ma la leadership di Immelt è stata messa a dura prova anche dalla crisi del 2008, scoppiata prima che potesse disfarsi della poderosa macchina finanziaria messa a punto dal suo predecessore, e ancor di più dal tonfo del petrolio: la strategia del manager, basata sull’acquisto delle turbine di Alstom e sulle nozze con Baker Hughes, gigante dei servizi per l’energia, partiva dal presupposto che i prezzi del greggio sarebbero risaliti oltre i 100 dollari al barile. Al contrario, le quotazioni sono inchiodate attorno ai 50 dollari, a danno della domanda di macchinari per il settore estrattivo. Il comando passerà a John Flannery, 55 anni, altro veterano di Ge. Una successione preparata da tempo, dice l’azienda di Boston ma che è stata anticipata quando Immelt, a marzo, ha riconosciuto che non sarebbe riuscito a centrare l’obiettivo di profitti (2 dollari per azione) promesso al mercato per il 2018.

   

Ma il tramonto di questo manager rispettato più che amato, gran lavoratore dalle grosse spalle da giocatore di football nella squadra di Harvard ma dotato del cervello da matematico, è un avvenimento che va oltre i delicati equilibri di un colosso che spazia in ogni ramo dell’industria e dei servizi in 180 paesi (Italia compresa) con 350 mila dipendenti che generano un indotto che occupa due milioni e mezzo di persone. Immelt è sinonimo di globalizzazione, il manager che più ha legato la sua visione imprenditoriale alla stagione dei grandi scambi commerciali e finanziari mondiali. “Ero collegato con le Torri Gemelle – ha ricordato in seguito – quando si sentì via microfono un grande boato. Pensai immediatamente che era finita la stagione del dominio assoluto dell’America”. Un concetto che ha informato le scelte di Immelt, il globalizzatore. “Nel 2000 – ha ricordato il ceo – Ge sviluppava il 70 per cento dei suoi ricavi nel mercato domestico, mentre oggi l'equilibrio si è rovesciato e più del 50 del suo volume d'affari è dovuto ai mercati esteri”. “Il che – ha aggiunto – è stato un bene anche per gli  stabilimenti americani del gruppo, che hanno potuto beneficiare dei 20 miliardi di esportazioni generati ogni anno”. Ma non solo. “La prima volta che mi sono recato in Cina – ha detto di recente – mi aveva impressionato la confusione che regnava nel business. Poche settimane fa, invece, abbiamo tenuto una riunione molto produttiva di tutte le aree di business: in meno dieci anni abbiamo creato una grande scuola”.

   

E’ stata questa la missione dell’America degli anni della grande espansione prima della grande crisi, iniziata ancor prima dell’elezione di Donald Trump. “La globalizzazione ha sempre avuto molti critici. Per capirla bisogna saper guardare al di là del proprio naso per capire che si tratta di una soluzione win-win, utile a tutti. Invece, quante volte ho dovuto subire attacchi a Washington. Chi difende la libertà economica deve avere la pelle dura”. Altro che “America First”, anche se il manager – che fa parte della commissione istituita da Trump sull’industria manifatturiera – è ben consapevole che non tutto è filato liscio. “Abbiamo commesso molti errori – ha confessato – primo tra tutti considerando la scelta degli investimenti alla sola ricerca del costo del lavoro più basso. In questo modo abbiamo messo le basi per una forte reazione nei paesi d’origine”. “Oggi c’è profondo scetticismo verso le idee che hanno dato forza all’espansione economica per una generazione, mentre vengono messi alla prova  concetti come innovazione, produttività  e globalizzazione”. E’ il messaggio che Immelt consegna al successore, augurandogli di non ripetere i suoi errori. Ma è difficile non commetterne quando hai il coraggio di fare trenta acquisti miliardari in sedici anni.

Di più su questi argomenti: