Le good news per l'Italia non arrivano solo dal Pil, ma ora anche dal debito

Marco Fortis

L'Istat rivede al rialzo la crescita del 2017 ma la notizia vera arriverà tra un mese e riguarda il nuovo trend del debito pubblico: negli ultimi nove mesi è già diminuito in due trimestri 

L’Italia ha attraversato una crisi economica lunghissima, con pesanti ricadute occupazionali e sociali. Ma non è un paese scassato. È in graduale ripresa ormai dal 2014. Rimane saldamente la seconda manifattura d’Europa, è la seconda nazione europea per pernottamenti di turisti stranieri ed è la prima, alla pari con la Francia, per valore aggiunto agricolo. Ha un export forte e una bilancia commerciale con l’estero in attivo per quasi 52 miliardi di euro. Inoltre, gli ultimi dati Istat sull’occupazione e sul Pil, diffusi rispettivamente l’altro ieri e ieri, dimostrano che quel “sentiero stretto” tra attenzione ai conti pubblici e crescita economica che abbiamo descritto alcuni giorni fa su queste colonne è assolutamente percorribile.

Alla fine potrebbe aprirsi per l’Italia un orizzonte più ampio. Bisogna soltanto proseguire senza tentennamenti con le politiche economiche imboccate, riaccelerando anche sul pedale delle riforme.

 

Più 845 mila occupati in appena tre anni e un mese, di cui oltre i due terzi a tempo indeterminato, oltre 9 punti di disoccupazione giovanile in meno e una crescita del Pil nel primo trimestre 2017 rivista al rialzo da +0,2 per cento a +0,4 per cento rispetto al quarto trimestre 2016 e da +0,8 per cento a +1,2 per cento su base tendenziale rispetto al primo trimestre 2016 sono numeri che non devono indurre a facili entusiasmi ma che tuttavia rassicurano sulla solidità del percorso e sulla correttezza della direzione della nostra economia.

La crescita acquisita per il 2017 in soli tre mesi è già pari a +0,9 per cento cioè è vicinissima all’obiettivo annuale del governo a cui si guardava con scetticismo appena fino a poche ore fa. 

 

Con le ultime revisioni l’aumento congiunturale del Pil italiano nel primo trimestre 2017 è stato superiore a quelli di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Ma non troverete in nessun titolo di giornale di oggi questa notizia mentre soltanto due settimane or sono spiccava sulle prime pagine del “malumore” (per dirla alla Cerasa) che in base alle prime stime ora corrette l’Italia era il “fanalino di coda” d’Europa, del mondo e financo del sistema solare. Né troverete scritto da alcuna parte che “al netto della componente demografica”, cioè dell’invecchiamento della popolazione e della conseguente riduzione del numero di persone in età lavorativa, la performance occupazionale reale del nostro paese è andata ben oltre i + 845mila occupati ufficiali “osservati” (così li chiamano gli statistici). Infatti, secondo una nuova metodologia che l’Istat ha presentato a gennaio per fare questo tipo di stima depurata della demografia (di evidente interesse ma che incredibilmente non sembra appassionare molto gli analisti e i commentatori italiani), il fatidico milione di posti di lavoro in più, un tempo soltanto promesso, stavolta è stato davvero realizzato e addirittura già superato di diverse decine di migliaia di occupati.

 

L’occupazione in Italia sembra uno di quei ciclisti che vengono sempre dati per spacciati ma che poi, in vista del traguardo del gran premio della montagna, tirano fuori l’orgoglio e le forze rimaste e sorprendono gli avversari. In questo caso gli avversari sono coloro che da mesi, forti dei dati Inps che registrano un inevitabile rallentamento dei flussi netti di nuove assunzioni a tempo indeterminato (dopo l’eccezionale boom del 2015 che evidentemente può capitare solo una volta in un secolo), danno di volta in volta per morto il Jobs Act. Regolarmente smentiti, però, dal dato Istat sugli stock dei lavoratori a tempo indeterminato, che tra marzo 2014 e aprile 2017 è cresciuto incessantemente di ben 579mila unità. In aggiunta, a dispetto di coloro che ritengono che con le decontribuzioni il governo abbia speso troppi denari ottenendo risultati scarsi e non duraturi, ad aprile 2017 il numero di posti di lavoro fissi in Italia (15 milioni e 3mila) è ormai tornato praticamente agli stessi livelli del massimo storico dell’agosto 2008 (15 milioni e 32 mila).

 

Per quanto riguarda il Pil, spicca l’aumento dei consumi delle famiglie (+0,5 per cento rispetto al quarto trimestre 2016). Durante il governo Renzi e il primo trimestre del governo Gentiloni la spesa privata di consumo è cresciuta complessivamente del 4,1 per cento rispetto al primo trimestre 2014. Un risultato che non sarebbe stato possibile senza un consistente recupero di uguale entità del reddito disponibile delle famiglie consumatrici. Recupero determinato, a sua volta, grosso modo per metà dagli 80 euro e dall’eliminazione della tassa sulla prima casa e per un’altra metà dall’aumento dei posti di lavoro stimolato anche dagli incentivi. Misure che nel nostro paese vengono chiamate “bonus” o addirittura spregiativamente “mance elettorali” mentre in altre nazioni civili verrebbero probabilmente studiate come misure di politica economica che hanno avuto un discreto successo.

  

 

Ma c’è un altro dato, oltre a quelli dell’occupazione e del Pil, che ci deve indurre a credere con maggiore convinzione nella nostra possibilità di tornare finalmente ad essere un paese con una crescita “normale”. È una stima che presentiamo con largo anticipo rispetto a quando sarà certificata ufficialmente dall’Eurostat il prossimo 20 luglio. La notizia è che negli ultimi nove mesi il debito/Pil trimestrale dell'Italia è già diminuito in due trimestri (rispetto al corrispondente trimestre comparabile dell'anno precedente): infatti, è calato di 1,1 punti percentuali di Pil nel 3 trimestre 2016 e di 0,1 punti nel primo trimestre 2017. Una inversione di tendenza che attendevamo da tempo e che si verifica, come mostra il grafico in pagina (foto sopra), quando il valore monetario del Pil (linea verde) cresce tendenzialmente di più dell’aumento del valore monetario del debito pubblico (linea rossa). L’austerità, che azzoppando l’economia nel 2012-13 aveva allargato la forbice tra debito e Pil, è ormai alle nostre spalle, almeno speriamo. La strada della flessibilità e della crescita è evidentemente non soltanto più saggia (perché non genera traumi ai settori produttivi e all’occupazione) ma è anche di maggior successo pratico ai fini del conseguimento degli stessi obiettivi europei di finanza pubblica. Infatti, dopo aver stabilizzato il suo debito/Pil, l’Italia sta ora cominciando anche a ridurlo.

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