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Contrordine compagne, gli stipendi più alti sono quelli delle donne

Simonetta Sciandivasci

Negli Stati Uniti le top manager guadagnano più dei loro colleghi maschi, dice un'indagine del Wall Street Journal

Le top manager americane ricevono uno stipendio maggiore di quello dei loro colleghi maschi: è il primo caso di divario salariale che ha il sapore della vittoria e non del regresso socio-culturale. Una "inversione straordinaria", scriveva ieri il Wall Street Journal, che titolava "sebbene siano di meno, le CEO guadagnano più dei capi maschi", riportando i risultati dell'analisi annuale che il quotidiano conduce, ormai da quasi un trentennio, sugli stipendi nelle cinquecento aziende a maggiore capitalizzazione del paese, il cui andamento è seguito dall'indice S&P 500, il più importante del mercato statunitense.

  

Nel 2016, ventuno amministratori delegati donne hanno percepito uno stipendio mediano di 13,8 milioni di dollari, mentre 382 colleghi uomini hanno portato a casa 11,6 milioni. È importante fare attenzione a quel "mediano": in statistica, la mediana è il valore centrale dei dati numerici, mentre la media - che siamo più abituati a sentire - è il rapporto tra la somma dei dati numerici e il numero dei dati. La notizia è inaspettata solo per chi crede davvero che il sessismo sia in grande spolvero (come fa il Guardian, che ogni settimana, da quando Trump è presidente, raccoglie i segnali del rinvigorimento patriarcale occidentale e li invia ai suoi lettori tramite la newsletter "A week in patriarchy" - appunto).

  

In verità, sebbene l'obiettivo di un equal pay generalizzato sia ancora lontano dall'essere raggiunto, da tempo esso colleziona importanti traguardi in sua direzione. A settembre dello scorso anno, ancora il Wall Street Journal segnalava che il gap salariale tra donne e uomini aveva raggiunto il minimo storico e ricordava anche che tra le cause del fenomeno, che in America è sempre stato piuttosto considerevole, la discriminazione era un fattore molto meno rilevante di quello rappresentato dall'anzianità lavorativa (oggi, i ventenni e trentenni maschi non guadagnano molto di più delle loro coetanee: la sperequazione è parecchia soprattutto tra ultracinquantenni maschi e rispettive coetanee). Questo ci ricollega a quanto, nell'articolo di ieri, il WSJ evidenziava: le donne che arrivano al vertice sono sempre vecchi acquisti delle aziende, persone che hanno impiegato anni ad arrivarci. Difficilmente, una donna viene assunta con un ruolo dirigenziale: deve conquistarselo partendo da molto più in basso, in una corsa a ostacoli particolarmente faticosa.

  

"Queste donne devono essere eccezionali", ha dichiarato Heidi Hartman, presidente dell'istituto di ricerca sulle politiche femminili. Pertanto, se la percentuale di donne alla guida delle società e delle aziende più o meno prestigiose, è ancora incredibilmente bassa, si deve anche al fatto che, per loro, il percorso è assai più accidentato e arduo. Questo nonostante gli ottimi risultati che le aziende a leadership rosa conseguono: rimanendo all'indice S&P 500, il ritorno delle aziende con CEO donne, lo scorso anno, ha superato di più di tre punti percentuali quello delle concorrenti capitanate dagli uomini (il sorpasso è stato registrato tre volte negli ultimi cinque anni, anche se con percentuali diverse). Delineato il contesto e denunciati gli immancabili limiti, il passo in avanti è innegabile. Nel libro "La salvezza del mondo", pubblicato lo scorso anno da Castelvecchi, l'autrice Paola Diana scrive che "una femminista si batterebbe anche per i diritti degli uomini, se fossero discriminati dalle donne". Se mai dovesse accadere (ma non accadrà) che a subire il gender gap finiscano i maschi, sappiamo chi correrà in loro soccorso.