Quello italiano è un "sentiero stretto" ma molto, molto virtuoso

Marco Fortis

Il modello di politica economica adottato dal nostro paese ci sta riportando alla crescita. Un avvertimento per Berlino

Anche in occasione della diffusione da parte della Commissione europea delle raccomandazioni sul Programma nazionale delle riforme e sul Programma di Stabilità per il 2017, lo scorso 22 maggio, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha illustrato la razionalità del modello di politica economica che l’Italia ha avviato nel 2014 durante il triennio del governo Renzi e che sta ora proseguendo con il governo Gentiloni. Un modello che si può sintetizzare con il paradigma del “sentiero stretto” coniato dal ministro e che trova anche una rappresentazione plastica in un grafico pubblicato sul sito internet del Mef.

 

 

In tale grafico sono raffigurate le principali variabili macroeconomiche dell’Italia dal 2001 al 2017: la variazione percentuale del pil “anno su anno”, il rapporto deficit-pil e il rapporto debito-pil. Lo scopo è quello di dimostrare che a partire dal 2014 tutte le variabili presentano un andamento costante e una direzione coerente: crescita modesta ma progressivamente più sostenuta dell’economia, deficit statale in continua diminuzione, stabilizzazione del debito pubblico. Il miglioramento costante sia del pil sia del rapporto deficit/pil e l’andamento sostanzialmente piatto del rapporto debito/pil esprimono il concetto di “sentiero stretto” che ha ispirato la politica economica degli ultimi due esecutivi: “riduzione del deficit per arrestare l’espansione del debito e sostegno all’economia per favorire la crescita, l’occupazione e l’inclusione sociale. La composizione della manovra di finanza pubblica – sempre secondo il Mef – ha consentito di comprimere il deficit in modo graduale favorendo un’accelerazione costante del pil, che non ha subito le brusche oscillazioni registrate in passato”.

 

Combinare la crescita economica,
pur moderata,
con un contenimento costante dei conti pubblici ma meno traumatico rispetto
alla austerità tout court, ha permesso al nostro paese di stabilizzare
il rapporto debito/pil.
E il bilancio primario dello stato è stato ampiamente positivo
nel 2014-'16

In sostanza, il “sentiero stretto” è l’unico che l’Italia può percorrere – nelle sue attuali condizioni – per migliorare i conti pubblici e ritrovare contemporaneamente la via per una crescita solida. Negli ultimi anni, il rapporto debito/pil del nostro paese, complice anche la crisi finanziaria esplosa nel 2009, è salito durante il governo Berlusconi IV dal 102,2 del 1° trimestre 2008 lasciato dal governo Prodi al 116,5 del 4° trimestre 2011: più 14,3 punti percentuali. Ma il successivo periodo dell’austerità non ha portato a risultati migliori. Infatti, durante il governo Monti, che pure ha avuto il merito iniziale di rassicurare i mercati, il debito/pil è passato dal 116,5 al 126,8 del 1° trimestre 2013: più 10,3 punti percentuali. Poi durante il governo Letta il debito/pil è cresciuto ulteriormente dal 126,8 al 131,6 del 1° trimestre 2014: più 4,8 punti percentuali. In totale, nei due governi consecutivi Monti-Letta della fase dell’austerità il debito dell’Italia è aumentato complessivamente di 15,1 punti di pil, a dimostrazione che la ricetta di un eccessivo rigore nei conti pubblici, generando recessione, non migliora l’incidenza del debito, anzi la fa peggiorare significativamente.

 

Infine, durante il governo Renzi il rapporto debito/pil è salito moderatamente dal 131,6 lasciato dal governo Letta al 132,6 del 4° trimestre 2016: dunque soltanto di 1 punto percentuale (meno di un decimale di incremento medio al trimestre). Aver imboccato il “sentiero stretto”, che combina la crescita economica, pur moderata, con un contenimento costante dei conti pubblici ma meno traumatico rispetto alla austerità tout court, ha dunque permesso di stabilizzare il rapporto debito/pil. Inoltre, nonostante l’uso della flessibilità ottenuta da Bruxelles, il bilancio primario dello stato italiano (cioè il bilancio prima del pagamento degli interessi sul debito) è stato ampiamente positivo nel triennio 2014-’16, cumulando un surplus di 4,5 punti di pil: un risultato “tedesco”. Infatti, considerati i paesi dell’Eurozona, il Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada e il Giappone, quella dell’Italia durante il triennio 2014-2016, è stata la terza migliore gestione del bilancio pubblico prima del pagamento degli interessi dopo la Germania (6,3 per cento di surplus primario cumulato rispetto al pil) e il Lussemburgo (5,9). Ciò a fronte di deficit primari cumulati significativi di paesi come gli Stati Uniti (meno 3,4 per cento), la Francia (meno 4,8), il Regno Unito (meno 5,5), la Spagna (meno 6,3) e il Giappone (meno 6,8).

 

D’altra parte, si dirà, l’Italia è “costretta” a generare un alto surplus pubblico primario per poter pagare almeno una quota degli interessi sul proprio debito. Ciò è vero. Tuttavia si dovrebbe tener conto di questo sforzo quando si considera il tema della bassa crescita dell’economia italiana. Infatti, in virtù anche delle riforme avviate ma non ancora completate, ciò che in questi ultimi anni ci separa dalla maggior velocità del pil di altri paesi è ormai quasi esclusivamente il non poter far leva sulla spesa pubblica, dati i nostri vincoli di bilancio. Abbiamo recentemente dimostrato su queste colonne, per esempio, che escludendo i consumi finali della Pubblica amministrazione e gli investimenti in costruzioni, il divario tra la crescita del pil tedesco e quello italiano è stato soltanto di due decimali nel 2015 e di appena un decimale nel 2016. Questo perché la domanda privata italiana e tedesca – data dai consumi delle famiglie e dagli investimenti tecnici delle imprese – viaggiano ormai sullo stesso ritmo (nel 2016 più 1,9 per cento di crescita aggregata in entrambi i paesi). E ciò nonostante i ritardi che l’Italia ancora presenta e i complessi problemi/freni che ci affliggono tra cui l’eccesso di burocrazia e il divario nord-sud.

 

In effetti, il “sentiero stretto” non permette di correre veloci ma ci sta riportando gradualmente alla crescita e probabilmente a una prima e ormai imminente riduzione del rapporto debito/pil dopo tanti anni. La controprova, per chi la volesse sperimentare, è quella di varare un reddito di cittadinanza senza coperture che affondi i conti pubblici, riportandoci diritti al buio 2011. Oppure, all’opposto, è quella di tornare all’austerità e al depresso 2012, magari togliendo gli 80 euro (che secondo alcuni sono “inutili” ma che, valendo circa 9 miliardi/anno distribuiti a oltre 11 milioni di italiani, hanno dato una spinta decisiva ai consumi, rappresentando da soli quasi 1/3 del recupero del reddito disponibile delle famiglie ottenuto nel triennio 2014-16, pari a circa 30 miliardi).

 

Alternativamente, per avere le idee un po’ più chiare su chi sta crescendo in modo equilibrato e chi no, si potrebbe anche costruire un indice sintetico di “crescita virtuosa” che sommi l’aumento del pil al risultato del bilancio primario dello stato. Misurato sul triennio 2014-2016, tale indice sorprende perché vede l’Italia seconda solo alla Germania, davanti a tutti gli altri paesi del G7, e alla ammiratissima Spagna che cresce molto ma con un bilancio statale da cartellino rosso (vedi tabella). Se poi, proseguendo in questa simulazione virtuale, si facesse pagare alla Germania una “multa” per grave squilibrio macroeconomico, costringendola non a esportare di meno (nessuno lo pretende) bensì a importare di più, visto che nel triennio considerato ha sforato per 4,8 punti complessivi di pil il massimo avanzo corrente con l’estero consentito dall’Unione europea (6 per cento del pil all’anno), anche la sua “crescita virtuosa” diventerebbe un po’ più simile a quella italiana.