Tre cose di sinistra per andare a votare: voucher, povertà e anticipo pensionistico

Marco Leonardi

Il punto non è elezioni sì o no (meglio sì) ma cosa può fare un leader riformista per prosciugare l’onda anti sistema senza cedere alle tentazioni trumpiste. Renzi, ma non solo. Un girotondo

Dopo la sentenza della Consulta, il voto si avvicina. Che sia giugno, settembre o l’anno prossimo alcune cose sono da fare prima di andare a votare ed hanno tutte un chiaro segno redistributivo. Sono imprescindibili un intervento sui voucher, il termine dell’iter della delega sulla povertà e la finalizzazione dei decreti attuativi dell’anticipo pensionistico. Iniziando dall’ultimo punto, l’ape sociale per la prima volta dopo anni inverte il segno delle politiche dei tagli in campo pensionistico. Per due anni in via sperimentale avranno accesso alla pensione anticipata di tre anni (ovvero a 63 anni) tutti coloro che con 30 anni di contributi sono disoccupati e hanno finito gli ammortizzatori sociali, hanno un’invalidità civile al 74% o assistono famigliari di primo grado disabili gravi ovvero tutti coloro che hanno 36 anni di contributi e per gli ultimi 6 hanno fatto occupazioni pesanti come l’operaio edile, l’autotrasportatore e il facchino. Le stesse categorie svantaggiate possono accedere alla pensione con 41 anni di contributi invece di 42 anni e 10 mesi se sono lavoratori precoci (cioè con 12 mesi di contributi prima dei 19 anni di età). Tutti gli altri possono accedere all’ape volontaria, un prestito agevolato per fare un ponte di tre anni e sette mesi tra i 63 anni e i 66 anni e sette mesi dell’età pensionabile. Non si tratta di una costosa riforma pensionistica a favore di chi ha pensioni medio-alte ma al contrario di un intervento mirato alle categorie più deboli. E’ già scritto nella legge, è sufficiente procedere velocemente ai decreti attuativi. Il disegno di legge delega in materia di contrasto della povertà – presentato dal governo al Parlamento l’8 febbraio 2016 – prevede l’introduzione nel nostro ordinamento del Reddito di inclusione (REI), quale misura nazionale unica di contrasto alla povertà. Anche in questo caso per la prima volta l’Italia si dota di una misura universale di lotta alla povertà. Una valida alternativa al rinunciatario concetto di reddito di cittadinanza, buono solo per le campagne elettorali e per i convegni sulla disoccupazione tecnologica. A fronte dei 750 milioni di euro allocati per il 2016, sono disponibili per il 2017 circa 1,6 miliardi di euro: 1 miliardo di euro a valere sul Fondo per la povertà, finanziato a regime dalla legge di stabilità, cui si aggiungono le risorse residuate dal 2016 e quelle rimanenti sul Fondo Carta Acquisti. A fronte dei circa 60 mila nuclei familiari raggiunti nel 2016 (famiglie con reddito isee minore di 3000 euro e figli minori a carico), già nel 2017 si potranno raggiungere circa 500 mila persone e 120 mila nuclei familiari in condizioni di povertà. Si potranno recuperare anche circa 60 mila famiglie che sono rimaste fuori dalla classifica nel 2016. Nel 2018 a regime si prevede di coprire 400 mila nuclei famigliari e 1,5 milioni di famiglie. Nel 2016 sono state presentate 208 mila domande e ne sono state accolte solo 60 mila. Ci sono due problemi: diffondere l’informazione per aumentare il numero di domande e allargare i criteri di accesso in modo da dover rigettare un numero minore di domande tra quelle presentate. Per ottenere il risultato bisogna chiudere al più presto la delega con un accordo in maggioranza e procedere con i decreti attuativi in modo da varare la misura in via definitiva al più presto. Infine il tema voucher. E’ di sinistra sostenere il jobs act che punta alla stabilizzazione dei contratti, non il voucher che polverizza il lavoro. Il senso dell’intervento dovrebbe essere chiaro: va posto un limite alle aziende che di regola dovrebbero usare contratti e non voucher. Per le aziende è permesso un utilizzo solo come lavoro occasionale inteso come lavoro non prevedibile e non ricorrente. I limiti che si devono porre devono convincere tutti che il voucher non sia un sostituto di un contratto. Supponiamo che un lavoratore (o studente o pensionato) potesse svolgere con lo stesso committente prestazioni non continuative nel tempo (per esempio un massimo di 40 giorni l’anno e non più di 10 continuativi in un mese) per un massimo di 500/1.000 euro l’anno. E supponiamo anche che il datore debba comunicare ogni giorno tutte le prestazioni che paga con voucher. In questo caso non è in alcun modo pensabile che questo compenso sia sostitutivo di un qualsivoglia contratto.

 

Marco Leonardi è consigliere economico di Palazzo Chigi

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