L'ultima scena dell'operetta di Alitalia non sarà un dramma

Alberto Brambilla

Parla Kenneth John Button, esperto inglese di aviazione e docente alla libertaria George Mason University della Virginia

Roma. La storia di Alitalia è durata più di settant’anni. Il primo volo è del 5 maggio 1947 da Roma a Catania per 7.000 lire. La crescita mondiale è stata grande finché il mercato la concorrenza era minima (o addomesticata). La compagnia di bandiera vacillò con la liberalizzazione del trasporto aereo europeo nel 1987, che provocò sconquassi al vertice. Affrontò quel passaggio godendo di condizioni di quasi monopolio a livello nazionale, annichilendo le compagnie private come Itavia, Alisarda (poi Meridiana) e Air Dolomiti. Probabilmente è per questa capacità dello stato di produrre un argine granitico all’iniziativa capitalistica che Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, oggi ricorda con nostalgia i tempi della Alitalia pubblica. Ma non è vero – come ha detto Camusso il 4 maggio – che “da pubblica non era in queste condizioni”. Già nel 1996 registrava perdite per 1.200 miliardi di lire e per gli analisti era “tecnicamente fallita”. Oggi stato e privati possono insomma dividersi le colpe. Negli anni, la concorrenza internazionale, il rifiuto di alleanze globali (prima con l’olandese Klm e poi con Air France) e la pervicacia con cui s’ è tentato di garantire una posizione di monopolio domestico – prerogativa difesa per legge nei tre anni seguenti la privatizzazione del 2008 – hanno ridotto la competitività di Alitalia che in questi anni è stata perforata dalle agili concorrenti low cost. Ora che è di nuovo commissariata, in seguito alla bocciatura da parte dei dipendenti del piano di ristrutturazione, il governo metterà 600 milioni di euro per garantire l’operatività mentre tre commissari cercano un investitore – perde 200 milioni a trimestre, i soldi pubblici probabilmente basteranno per nove mesi.

      

Tuttavia s’ode da più parti il coro di chi invoca un intervento dello stato in varie forme per salvarla anche se l’esecutivo l’ha escluso. Per esempio ieri il sindaco di Fiumicino (Roma), dove sorge lo scalo principale per Alitalia, ha suggerito un soccorso a carico della collettività con l’ingresso nel capitale da parte di Fs, Leonardo (ex Finmeccanica) ed Eni; una specie di Frankenstein keynesiano. La preoccupazione è comprensibile, ma può essere facilmente superata. Nel 2012 quand’è fallita la compagnia ungherese Malev a Budapest si registrava lo stesso malumore. A quattro anni di distanza il gestore aeroportuale della capitale magiara, nella persona del ceo Jost Lammers, ammetteva di avere esagerato con le preoccupazioni e di avere tratto una lezione dalla vicenda. Lammers diceva di essersi adagiato troppo su una sola compagnia trascurando altri importanti fattori necessari alla crescita del flusso passeggeri, ad esempio il marketing. Per il gestore dell’aeroporto di Fiumicino, Adr di proprietà di Atlantia, controllata dalla famiglia Benetton, l’agenzia di rating Moody’s dice di non prevedere un declassamento in seguito al collasso di Alitalia perché altri vettori, come le low cost come Ryanair, Easyjet o Vueling, che già operano a Fiumicino e vogliono aumentare la loro presenza in Italia, rafforzerebbero i piani di sviluppo e sostituirebbero parte della capacità dell’ex vettore di bandiera, qualora questa dovesse bloccare o ridurre la sua attività sullo scalo romano.

      

“Alitalia e la sua forza lavoro vivono oramai nel mondo dei sogni”, dice al Foglio Kenneth John Button, esperto inglese di aviazione e docente all’americana George Mason University (Virginia). “Abbiamo avuto sostanzialmente tre bancarotta negli anni recenti e ingenti ‘oneri per la ristrutturazione’ a carico dei contribuenti ma non si è tratta alcuna lezione. Oggigiorno un vettore fornisce semplicemente una materia prima – posti a sedere in movimento – e la gente la vuole al minore costo possibile. Ryanair l’ha capito anni orsono ed è cresciuta, ha creato posti di lavoro e servizi per i consumatori. Alitalia e i suoi sindacati sembrano pensare che la gente voglia l’‘esperienza’ di volare su un vettore con un certo brand e che i contribuenti siano disposti a pagare per questo; quei tempi sono andati”, dice Button. Il 76,9 per cento degli italiani interpellati il 3 maggio dalla società demoscopica Index Research ritiene “giusto che Alitalia fallisca”. Al contrario la reazione mediatica e sindacale è stata quella di invocare un salvataggio di stato per scongiurare conseguenze drammatiche per i lavoratori in caso di fallimento. Lasciarla fallire sarebbe un dramma? Button risponde con humor british e metafore teatrali: “Non sarà un ‘drama’ (che vuol dire anche tragedia, ndr) ma piuttosto una breve scena di un’operetta. L’economia italiana è un disastro. La storia di Alitalia è certo indicativa di alcuni problemi ma è invero soltanto una parte molto piccola di un ben più grande ‘divertimento’”.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.