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Cara Camusso, le buone privatizzazioni funzionano eccome

Renzo Rosati

La storia dell’industria di stato è disastrosa. Ecco quando i capitali privati hanno fermato il declino

Roma. “Paghiamo e scontiamo le privatizzazioni come sono state fatte nel nostro paese, che si dimostrano anche a distanza di anni disastrose”. Così dixit il 25 aprile Susanna Camusso, la stessa segretaria generale della Cgil che sei giorni prima, invitando a votare sì al referendum sull’accordo per Alitalia, dichiarava: “Non c’è alternativa per provare a salvarla”. Il piano riguardava notoriamente un’azienda privata dal 2008, e che ora Camusso vorrebbe rinazionalizzare attraverso la Cassa depositi e prestiti. Ma soprattutto quando parla di “privatizzazioni disastrose a distanza di anni” pare che non conosca ciò che dice.

Se avessimo ascoltato gli allarmi di Fiom e Cgil oggi lo stato avrebbe in carico anche il Nuovo Pignone che invece è diventata l'avanguardia General Electric. Il kombinat politico-sindacale fu anche nemico della privatizzazione di Telecom, oggi società in orbita francese che investe (e molto) in Italia

Prendiamo un caso oggi lontano dalla ribalta, ma per decenni al centro di furibonde lotte politiche e sindacali: quello del Nuovo Pignone di Firenze, vicenda che anche Matteo Renzi conosce bene avendo inserito tra i propri numi ispiratori Giorgio La Pira, il “sindaco santo” che nel 1953 scongiurò l’Eni di salvare e comprare l’azienda. Dopo quaranta’anni, in piena campagna di privatizzazioni promossa dal governo di Giuliano Amato e dall’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi, l’Eni fu parzialmente privatizzato e la Pignone ceduta alla General Electric. Ci furono picchettaggi e cortei opera soprattutto della Fiom-Cgil, che trovarono sponde nelle lettere inviate dal presidente dell’azienda Franco Ciatti alla dirigenza Eni: Ciatti sosteneva che la Ge avrebbe ridotto il Nuovo Pignone “a un’officina di servizio, mentre il business delle turbine sarebbe stato smembrato”. Bene: oggi l’azienda è la punta di diamante del colosso americano nella produzione di energia, capofila della divisione Oil & Gas della Ge, unico esempio di divisione autonoma fuori dagli Usa. Il fatturato a valori attuali è circa dieci volte quello del ’93. I 1.500 dipendenti sono aumentati a 5.300, un migliaio dei quali impegnati nella ricerca. Se fosse dipeso dalla Cgil (e da molti politici dell’epoca) l’azienda, in nome dello statalismo, avrebbe forse chiuso i battenti.

 

Il kombinat politico-sindacale fu anche nemico della privatizzazione di Telecom, avvenuta nel 1997 sotto il governo di Romano Prodi con la costituzione di un “nocciolo duro” del salotto buono della finanza italiana. Formula adottata anche per preservare l’italianità dell’azienda, e quindi tranquillizzare il fronte sindacale e la sinistra (la destra di An era ancora più contraria). Ma solo con l’arrivo di azionisti forti stranieri – prima la spagnola Telefonica e oggi la francese Vivendi – l’azienda, mutato nome in Telecom e Tim, ha trovato stabilità finanziaria e capacità di produrre utili e fare investimenti. Vivendi ha appena confermato la strategicità dell’investimento pari al 23,9 per cento del capitale (il 56,8 è in mano a fondi e investitori istituzionali stranieri), anche rispetto all’altra operazione dei francesi in Italia, e quella in Mediaset. Risultato: l’ex monopolista di stato è oggi il primo investitore privato in Italia con 11 miliardi nel piano triennale 2017-2019. Mentre al primo posto assoluto c’è un’azienda, le Ferrovie, che assieme alle Poste è stata per decenni il simbolo della cogestione tra stato e sindacato.

 

Le Fs, trasformate in società per azioni nel 2001, hanno vissuto il periodo di guerre interne nei primi anni ’90, con la drastica riduzione del personale e la nascita del sindacalismo di base organizzato nei Cub e poi nell’Orsa. Da lì però, e dalla divisione tra rete e servizi, è nata l’azienda che oggi è tra i sette leader mondiali dell’Alta velocità, che nel 2016 ha versato al Tesoro un utile record di 772 milioni, e con l’acquisizione di Anas (ex buco nero delle aziende pubbliche) può annunciare 400 milioni di sinergie e 80 miliardi di investimenti entro il 2027. La parziale quotazione in borsa delle Ferrovie è un argomento caldo di questi giorni, fa parte dell’agenda del governo e degli impegni europei.

 

Così come la cessione di un’altra quota di Poste, dopo il collocamento del 40 per cento del 2015. Il bilancio 2016 di Poste italiane evidenzia utili di 807 milioni e un fatturato in crescita del 7,6 per cento, grazie anche all’attività bancaria e assicurativa. L’azienda aveva sempre accumulato perdite, ripianate ogni anno dai contribuenti, fino al 1998, quando fu affidata alla ristrutturazione di Corrado Passera, poi ad di Intesa e ministro con Mario Monti.

 

Quanto hanno perso Ferrovie e Poste soprattutto negli anni ’70 e ’80, quando non avevano neppure lo status di società per azioni (e non venivano redatti veri bilanci), ma di ente e azienda autonoma? Calcoli empirici parlano di circa duemila miliardi di lire l’anno le prime, mille miliardi le seconde. Totale, 60 mila miliardi di lire ai valori di allora, 140 miliardi di euro ai valori attuali. Oltre l’otto per cento del debito pubblico di oggi. Sono solo alcuni esempi: ci sarebbero le banche (domandina semplice: funzionano meglio Intesa e Unicredit, ex Iri, privatizzate, o il Monte dei Paschi fino al 2012 di proprietà della fondazione pubblica?), e anche l’Ilva. La siderurgia di stato sotto l’insegna della Finsider perdeva negli anni Ottanta tra i 1.600 ed i 2.000 miliardi di lire l’anno. Al punto che la controllante Iri redigeva due bilanci, con la Finsider (e la Rai) e senza. Lo stabilimento di Taranto oggi fa notizia per le traversie giudiziarie dell’Ilva; ma sotto la proprietà privata della famiglia Riva era tornato all’attivo e tecnologicamente all’avanguardia in Europa.

 

Come scrisse nel 1993 Franco Debenedetti in Siderurgia pubblica: una lunga storia di ordinaria follia, “con la proprietà di stato sua produzione annua per addetto di Taranto era di 350 tonnellate contro le 600 dei giapponesi”. Complessivamente, calcola Debenedetti, la Finsider bruciò tra i 1975 e il ’93 almeno 30 mila miliardi di lire, 70 miliardi di euro attualizzati. Ma a febbraio, ancora prima della resa dei conti di Alitalia, Camusso dichiarava: “Le privatizzazioni fanno solo danni, si devono bloccare anche quelle di Poste e Ferrovie”. Chissà se nel 2002 fosse stata nazionalizzata la Fiat: come chiedeva allora la Fiom.

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