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Perché non vola l'Italia della rendita

Alberto Brambilla

Niente nazionalizzazione, Alitalia sarà commissariata. Errori strategici, rotazione di manager, ipocrisia e oclocrazia. Ecco tutti i tabù mai affrontati dalla compagnia

Roma. Alitalia inizierà le procedure di liquidazione dopo che i dipendenti hanno respinto la proposta di tagli al personale e agli stipendi dell’azienda che ambiva a salvare per la terza volta in un decennio la prima compagnia aerea italiana per numero di passeggeri. Di conseguenza ieri il cda di Alitalia, partecipata al 49 per cento da Etihad, ha comunicato che “data l’impossibilità di una ricapitalizzazione” ha deciso di “iniziare le procedure previste per legge”, ovvero richiedere l’amministrazione straordinaria al ministero dello Sviluppo economico. L’assemblea degli azionisti di Alitalia si riunirà domani per discutere la decisione. Uno scenario simile è fallimentare. E’ il risultato della scelta di due terzi dei 12.500 dipendenti che, contrariamente alle aspettative dei sindacati confederali, attraverso un referendum aziendale lunedì hanno respinto il piano industriale della società, appoggiato dal governo e considerato fondamentale per procedere a una ricapitalizzazione da 2 miliardi di euro – l’investimento più grande dell’ultimo decennio – da parte di soci e banche azioniste e creditrici per assicurare sopravvivenza del vettore in crisi. Alitalia perde 1-1,5 milioni di euro al giorno ed è incerto se abbia le risorse necessarie per continuare a operare regolarmente nelle prossime settimane. La Cgil e le sigle sindacali di base dopo avere promosso il “no” al referendum ora invocano la nazionalizzazione o l’intervento dello stato nel capitale per salvare la compagnia, privatizzata nel 2008, pur sapendo che il governo Gentiloni ha negato questa possibilità.

 

Come si è arrivati a questo punto? Alitalia un tempo era il simbolo dello splendore italiano nel mondo e ora è metafora dell’opposto. Si sono susseguiti errori strategici esiziali, una rotazione di manager vertiginosa, e l’ipocrisia dei vertici che propagandavano risultati in “accelerazione” celando la situazione di difficoltà in un settore dalla forte competizione globale. Il peccato originale sta nella mancata alleanza con un grande vettore come AirFrance-Klm nel 2007-08 dopo la gestione pubblica in grave perdita. Il governo Prodi tentò d’incentivare il passaggio ad AirFrance spostando parte del traffico da Milano-Malpensa a Roma-Fiumicino (il piano Prato) per incontrare i desiderata dell’ad della francese Jean-Cyril Spinetta che però rifiutò l’acquisto nel timore di critiche in casa.

 

Nel 2008 il governo Berlusconi decise di riunire una compagine di soci italiani (Compagnia aerea italiana), capitanata da Intesa Sanpaolo guidata da Corrado Passera, con una partecipazione di AirFrance e della concorrente Air One, per un aumento di capitale da 1,2 miliardi di euro unito a un programma di taglio dei costi (il piano Fenice). Fenice era l’estremo tentativo di non lasciar fallire Alitalia e di non mettere in crisi il sistema del trasporto aereo, ma ha avuto il difetto fatale di concentrarsi sul mercato domestico – già penetrato dalle agguerrite compagnie low cost e poi dalla concorrenza dell’Alta velocità ferroviaria – riducendo le rotte intercontinentali e gli aerei destinati al lungo raggio. Alitalia ha perso la possibilità di creare alleanze durature mentre i concorrenti si rafforzavano. Nel 2004 AirFrance s’era fusa con l’olandese Klm. In questi anni Lufthansa ha raddoppiato i passeggeri (da 50 a 110 milioni) rilevando Swiss, Austrian e la Brussels Airlines (ex Sabena) e privilegiando rotte intercontinentali. Il taglio dei costi è stato sufficiente a portare Alitalia a 69 milioni di perdite nel 2011, mai cosi contenute, ma i ricavi erano insufficienti a generare utili. Il tasso di riempimento dei voli è rimasto pressoché costante attorno a un pur dignitoso 73-76 per cento ma l’incidenza dei costi eccessiva non avrebbe consentito di recuperare redditività.

 

Ancora nel 2015 i termini del problema sono identici. Mentre le altre compagnie europee si alleavano, Alitalia rimaneva sola e priva di un management capace di stabilire una strategia operativa di lungo periodo. In otto anni, dal 2009 a oggi, sono cambiati sei capi azienda. Rocco Sabelli (2008-2012) ha ridotto gli sprechi. Il suo successore Andrea Ragnetti (2012-2013), ex manager Philips, ha avviato una campagna marketing massiccia ma inutile. Gabriele Del Torchio (2013-2014), ex manager Ducati, in un anno ha preparato l'azienda per l’arrivo della Etihad di Abu Dhabi. Nel frattempo Alitalia perde alcuni manager della vecchia guardia poi assunti altrove, l’inizio di una emorragia. Il successore di Del Torchio, Silvano Cassano (2014-2015), ha rassegnato le dimissioni su spinta del nuovo socio emiratino. Luca di Montezemolo, presidente di Alitalia, ha assunto l’interim mentre le prime linee di Alitalia venivano sostituite da manager di Etihad. L’attuale ad è Cramer Ball.

 

“E’ una discontinuità straordinaria che impedisce di stabilire una direzione in un mercato che ragiona in lustri o decenni”, dice Andrea Giuricin, docente di Economia dei trasporti all’Università Bicocca. “Non è vero come dicono i sindacati in questi giorni che le persone sono sempre le stesse, il problema è opposto”. Michael O’Leary è ceo di Ryanair dal 1994. Dame Carolyn Julia McCall è al vertice di Easyjet dal 2010. Sir Timothy Charles Clark è presidente esecutivo di Emirates dal 2003. L’arrivo di Etihad, all’epoca capitanata dall’australiano James Hogan, oggi dimissionario dal gruppo, era considerato risolutivo perché il terzo vettore mediorientale per grandezza perseguiva la strategia di comprare quote di vettori europei in crisi per espandere il suo network e aveva l’ambizione dichiarata di risanare Alitalia entro il 2017. Hogan e Montezemolo hanno propagandato il rilancio e suggerito una quotazione in Borsa dopo il ritorno in utile. Il risanamento non c’è stato: Alitalia ha perso un miliardo in tre anni. Alcuni manager arrivati da Etihad sono stati criticati e sono in uscita da Alitalia. Le banche azioniste Intesa Sanpaolo e Unicredit, forti del 30 per cento, avevano denunciato i ritardi del chief financial officer, Duncan Naysmith, nel riportare la situazione al cda. Ana Maria Escobar, pricing e revenue manager, pur avendo ridotto il costo medio dei biglietti non ha raggiunto i risultati sperati: il tasso di riempimento resta tra i 15-17 punti inferiore a Ryanair e Easyjet. Visti i fallimenti passati i lavoratori erano scettici sul nuovo piano e in parte hanno votato “no” al referendum per questa ragione. Un’altra parte invece era convinta che lo stato avrebbe soccorso Alitalia per evitare conseguenze politiche.

 

I sindacati di base, quelli più vicini alle maestranze aeroportuali, ora rivendicano la vittoria e chiedono un intervento pubblico in linea con Luigi Di Maio del Movimento 5 stelle. Dal 1974 al 2008 Alitalia ha pesato sulle casse dello stato per 7,4 miliardi di euro, secondo l’Ufficio studi di Mediobanca. “La cosa peggiore sarebbe metterci altri soldi – dice Francesco Giavazzi, economista dell’Università Bocconi – Non credo che la nazionalizzazione si farà, l’Europa non lo consente. Dobbiamo chiederci se sia giusto che 10 mila persone decidano di buttare via un’infrastruttura come questa. Se gli azionisti sono convinti che il piano è nell’interesse dell’azienda non devono farsi imporre una scelta. E’ un copione già visto coi movimenti che si opponevano alla Tav in Val di Susa o al gasdotto Tap in Puglia”. Si è sviluppata una coscienza collettiva in Alitalia che ha preferito decretare il fallimento dell’azienda piuttosto che incontrare sacrifici economici ammortizzabili. A livello aziendale si rivede quella che lo storico greco Polibio definì “oclocrazia”, ovvero una degenerazione della democrazia che porta una moltitudine caotica ad ascoltare gli intenti di capi che – per i loro scopi – ne orientano le opinioni instillando falsi desideri.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.