Manifestazione contro Uber (foto LaPresse)

Sul caso Uber si misura la credibilità riformista del governo e della classe politica

Sergio Boccadutri

Le norme in vigore risalgono al 1992 quando la diffusione dei telefonini era del tutto marginale. Vanno aggiornate e ora l'urgenza è inderogabile

ll Tribunale civile di Roma, e in particolare proprio la Sezione specializzata in materia d’imprese (aspetto questo tutt’altro che secondario), in parziale accoglimento di una richiesta di pronuncia di “provvedimenti d’urgenza” ex art. 700 c.p.c., ha ritenuto sussistente una condotta di concorrenza sleale (ex art. 2598, n. 3, c.c.) posta in essere sul territorio italiano da parte di Uber e disposto così in via cautelare (in assenza quindi un pieno giudizio di “merito” sulla questione) l’inibizione di Uber stessa dal “porre in essere il servizio di trasporto pubblico non di linea” (sic!) attraverso le proprie app e in qualunque forma. Ordinanza appena sospesa da un altro giudice, in attesa dell'udienza di appello fissata per il 5 maggio.

 

La decisione  del primo giudice – nel caratterizzarsi per delle motivazioni e argomentazioni che appaiono, invero, apodittiche proprio nei passaggi chiave – solleva diverse perplessità e ciò almeno sotto due profili: uno è relativo all’esigenza ormai indifferibile di rivedere la normativa vigente (così da eliminare orientamenti ondivaghi e  assicurare quella certezza del diritto alla base di ogni genuino sviluppo e di condizioni di “parità delle armi”); l’altro all’idea stessa di concorrenza sleale – o meglio di “correttezza professionale” e di “danno ingiusto” (stante il richiamo all’art. 2598, n. 3, c.c.) – che è alla base del pronunciamento. 

 

Secondo il magistrato, Uber fa concorrenza sleale ai tassisti in quanto, per il modo in cui essa consente di mettere in contatto la domanda e l’offerta, implica inevitabilmente l’aggiramento delle norme, che prevedono: a) che gli ncc possano ricevere prenotazioni unicamente all’interno della propria rimessa, che deve essere a suo volta nel comune che ha rilasciato la licenza; b) che debbano fare rientro nella rimessa al termine di ogni viaggio; c) che non possano prelevare passeggeri al di fuori del comune nel quale è stata emessa la licenza. Inoltre, la condotta sleale dal punto di vista concorrenziale troverebbe giustificazione nel fatto che il legislatore ha chiaramente inteso segmentare i mercati, distinguendo tra il servizio taxi (rivolto a una clientela indifferenziata sulla base di tariffe amministrate) e il servizio ncc (rivolto invece a una clientela specifica sulla base di prezzi negoziati). I due mercati, inoltre, dovrebbero essere coordinati dalle autorità locali nell’ottica di una programmazione territoriale, finalizzata a “una maggiore razionalità ed efficienza del servizio in discussione”. 

 

C’è un che di paradossale in queste considerazioni. I confini “naturali” dei mercati non possono infatti essere stabiliti ex lege, ma dipendono dalla domanda, dall’offerta e, oggi più di prima, dall’innovazione tecnologia. Parimenti, la carenza di taxi e ncc in alcuni grandi agglomerati urbani (trovare un taxi dalla periferia di Roma o in alcune giornate è particolarmente difficile) suggerisce che, se mai il comune e la regione hanno esercitato le loro funzioni di programmazione, le hanno miseramente fallite. A meno che l’obiettivo reale non fosse “la razionalità e l’efficienza del servizio” ma la protezione di una posizione di rendita a vantaggio di pochi (i tassisti e gli ncc romani) e a spese di tutti gli altri: i consumatori che pagano prezzi più alti rispetto a quelli “di mercato”, oppure sono costretti a utilizzare altre modalità di trasporto, oppure ancora sono costretti a rinunciare del tutto a determinati trasferimenti, ma anche gli utenti delle strade in genere che potrebbero beneficiare di strade meno congestionate e più parcheggi liberi. Cose non poco proprio in una città come Roma. 

 

In sostanza, il giudice di Roma non è convincente nel dimostrare che Uber fa concorrenza sleale ai tassisti e agli ncc: semmai, sembra suggerire che la disciplina vigente configuri come sleale ogni forma di concorrenza e innovazione. La decisione viene da una delle nuove sezioni specializzate in economia: ci si sarebbe aspettati qualche famigliarità in più con questi concetti basilari.

 

In pratica, dalla lettura della sentenza pare trasparire un’idea (ma forse sarebbe da dire “ideologia”) di fondo secondo cui ogni tentativo di modificare, in meglio, lo status quo delle modalità di erogazione dei servizi di trasporto pubblico locale, semplicemente sfruttando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie ICT, è atto da considerarsi per sé “scorretto” e “sleale” verso i tassisti, verso chi di questo status quo si avvantaggia, anche se a ciò potrebbero corrispondere ampi benefici per la collettività (servizi più accessibili per tutti, nuove modalità di consumo, riduzione nell’utilizzo dei mezzi privati, strade meno congestionate, minore inquinamento, etc.). Ogni “libero” atto d’impresa è visto in questo ambito come di per sé idoneo, in quanto tale, a danneggiare (per di più ingiustamente) altre imprese, sicché finirebbe per rispondere a “correttezza professionale” il solo attenersi alla pianificazione operata (malamente, come ci mostra l’evidenza) dai pubblici poteri, astenendosi quindi dal cercare, sulla base proprio “fiuto” e capacità imprenditoriali, di promuovere “di propria iniziativa” lo sviluppo, la qualità, la varietà, la disponibilità e l’efficienza nell’erogazione di servizi di mobilità urbana, anche ove ciò vada a vantaggio di consumatori, utenti e del pubblico in generale.

 

Il cieco affidamento sulle capacità “divinatorie” della pianificazione amministrativa nel decidere il limite tra giusto e ingiusto risulta in pratica ignorare, tra l’altro, il processo di evoluzione registratosi dagli anni ’80 ad oggi in diversi settori economici – es. in quello bancario – sulla spinta del processo di integrazione dell’Unione europea, per effetto del quale è stata abbandonata l’idea che debbano essere le Autorità pubbliche a rendersi interpreti prima e stabilire con valenza erga omnes poi quelle che in certo luogo e in determinato periodo sono le c.d. “esigenze economiche del mercato”. Risulta ignorato tutto il processo culturale, prima, e politico, poi, che ha portato quindi al progressivo smantellamento in numerosi settori economici (ad esempio quello delle telecomunicazioni) di un sistema di controllo pubblico basato sullo strumento delle “licenze” in favore di uno basato ove proprio necessario sulle “autorizzazioni”. In questo caso del mercato dei servizi di trasporto pubblico locale, non si capisce la difficoltà del Tribunale a prendere atto che non è più conforme all’ordinamento nazionale e dell’Unione un sistema in cui gli Enti locali stabiliscono d’imperio il numero “giusto” di autorizzazioni e licenze per ncc e taxi, quando invece si potrebbe molto più comodamente lasciar fare a chi questi servizi li vorrebbe utilizzare e offrire. Non si riesce a capire da questo punto di vista come il giudice adito possa quindi esse giunto alla (sorprendente) conclusione che alcuni limiti posti dalla normativa nazionale applicata siano tutt’ora compatibili e non violino “i vincoli derivati dall’ordinamento comunitario”, sottraendosi così agilmente e dare troppe spiegazioni dall’obbligo invece gravante sul giudice stesso di “disapplicarli” per sopravvenuta incompatibilità col corrente ordine giuridico del “mercato interno”.

 

Allo stesso modo non è dato intendere su cosa si fondi la ritenuta compatibilità anche con l’art. 41 della Costituzione della rendita che la legislazione applicata vorrebbe continua a difendere. Una rendita questa per difendere la quale i tassisti, e il tribunale di Roma con loro, arrivano a sostenere che debbono essere inibiti e vietati anche quei servizi diversi – non uguali, ma ben diversi, come confermato più volte anche nella sentenza – da quelli prestati dai tassisti stessi. I fini sociali dell’art. 41 dovrebbero essere prima di tutto quelli degli utenti dei servizi di mobilità urbana.   

 

Il che sposta l’attenzione sulle norme in vigore, che in buona sostanza risalgono al 1992 (quando non solo non esistevano gli smartphone, ma addirittura la diffusione dei telefonini era del tutto marginale e i servizi di telecomunicazione erano saldamente in mano alla Sip). Molto semplicemente: le norme sono anacronistiche e vanno aggiornate. Era sotto gli occhi di tutti, ma adesso l’urgenza è inderogabile. Bisogna ridefinire obblighi e diritti dei tassisti e degli ncc, rimuovendo barriere ormai indifendibili e spalancando le porte all’innovazione tecnologica. Non tanto per passione verso una innovazione cieca rispetto agli interessi sociali e delle varie parti interessate, ma proprio perché altrimenti si continuano frustrare gli interessi e il benessere di consumatori e utenti a solo vantaggio della testarda difesa del privilegio di pochi.  

 

Per questo il Ministero dei trasporti e il Ministero dello sviluppo economico devono ridisegnare complessivamente la disciplina del trasporto pubblico non di linea, tenendo conto del progresso tecnologico e dell’esigenza di promuovere la concorrenza. Tra l’altro questo è proprio oggetto di una delega contenuta nel ddl concorrenza, provvedimento attualmente al Senato e sul quale il CdM ha autorizzato recentemente il voto di fiducia. È su queste cose che si misura la credibilità riformista di un Governo e di una classe politica. La questione va molto al di là di Uber e tocca al cuore il rapporto del nostro Paese con l’innovazione e con le rendite.

 

*deputato Pd