Persone in attesa di un taxi a Milano per lo sciopero Atm dei mezzi pubblici (foto LaPresse)

Concorrenza o barbarie

Luciano Capone

Quando il riformismo dorme, avanzano gli stregoni: le norme anti Flixbus, Uber, Amazon

Il ddl Concorrenza non arriverà nell’aula del Senato neanche questa settimana. Ma dopo oltre due anni dall’approvazione in Consiglio dei ministri, non sarà certo un giorno in più o in meno a fare la differenza. La stasi e l’immobilismo, arrivati a questo punto, sembrano addirittura un’opzione preferibile, visto che tutto ciò che si muove va nella direzione della limitazione della concorrenza. Il problema non sono quindi i mancati passi in avanti, ma le marce indietro verso mercati sempre più ristretti e regolamentati a favore di corporazioni e gruppi di interesse organizzati che riescono a mandare avanti la loro agenda fuori dal binario del ddl Concorrenza e in direzione opposta. Solo negli ultimi mesi governo e Parlamento si sono distinti per: un emendamento al Milleproroghe che mette fuori legge Flixbus, l’operatore di autobus low cost; la disapplicazione della direttiva Bolkestein con la proroga delle concessioni scadute fino al 2018 e 2020 per ambulanti e balneari, senza bisogno di gare pubbliche; la cancellazione dei voucher in ossequio alla linea M5s-Cgil; la resa allo sciopero selvaggio dei tassisti a cui si poi aggiunta una sentenza del Tribunale civile di Roma che chiude Uber, in qualunque sua forma, sul territorio nazionale; una nuova offensiva “anti Amazon” per limitare ulteriormente gli sconti sui libri e continui provvedimenti di depotenziamento del ddl Concorrenza.

 

A febbraio 2015 il governo Renzi aveva dato un segnale positivo, segno dell’impulso riformatore dell’esecutivo, con la presentazione della prima legge annuale sulla Concorrenza dal 2009, da quando cioè esiste l’obbligo di approvarne una ogni anno sulla base delle segnalazioni dell’Antitrust. Ma già al momento del passaggio in Consiglio dei ministri, l’allora ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi fu costretta a togliere dal testo la liberalizzazione dei farmaci di fascia C. Da lì in poi il ddl Concorrenza ha subìto l’offensiva delle varie lobby, che sono riuscite a mutilare il provvedimento: gli avvocati hanno limitato la possibilità di ingresso delle società di capitali, i notai hanno praticamente vinto su tutta la linea respingendo le aperture e le liberalizzazioni non gradite, i farmacisti hanno conservato la fascia C, i tassisti sono riusciti a restare completamente fuori dalla norma nonostante l’invito a liberalizzare da parte dell’Antitrust, adesso il governo vuole rinviare a luglio del 2019 la fine del mercato tutelato dell’energia e anche gli odontoiatri sono andati all’attacco dichiarando con un “grido di dolore” il testo anti costituzionale.

 

“Il ‘combinato disposto’ di potere di blocco degli interessi costituiti e conservazione di massima degli assetti esistenti in questa fase politica – dice Alfredo Macchiati, docente di Politica economica alla Luiss – è in grado di bloccare ogni riforma che promuova efficienza e concorrenza, con buona pace dei consumatori”.

 

Mentre le liberalizzazioni sono ferme, le norme che restringono il mercato, la libertà di iniziativa economica degli imprenditori e la libertà di scelta dei consumatori, vanno avanti spedite. Dopo l’approvazione dell’emendamento anti Flixbus, spinto da alcune compagnie tradizionali di trasporto, mancano meno di 50 giorni alla chiusura del servizio della compagnia di autobus che lavora con aziende italiane offrendo un servizio eccellente e prezzi più convenienti che in un anno e mezzo ha fatto spostare 3,5 milioni di persone in oltre 120 città creando oltre mille posti di lavoro. Alcuni parlamentari di diversi schieramenti politici – Mazziotti, Boccadutri e Capezzone – si sono attivati per cancellare la norma, il governo si è impegnato a metterci una pezza ma non si sa ancora come. Non nel ddl concorrenza, forse in quello sugli enti locali. Intanto il tempo passa e decine di imprese e un migliaio di lavoratori vivono con la spada di Damocle della chiusura per legge sulla testa.

 

Negli ultimi giorni, come segnala un approfondito articolo del Post.it, è partita l’offensiva di editori e librai con una norma “anti Amazon” che in realtà è contro i lettori. Le case editrici si stanno muovendo per far approvare, prima della fine della legislatura, la norma contenuta nella proposta di legge del Pd Zampa – Boccadutri che impedisce sconti sui libri superiori al 5 per cento. Non è ritenuta sufficiente la legge Levi che proibisce sconti superiori al 15 per cento, il margine deve essere ridotto ulteriormente, a tutto svantaggio dei lettori che saranno costretti ad acquistare a prezzi più alti. Ma ciò che più è paradossale di questa norma è il titolo: “Disposizioni per la promozione della lettura”. Si immaginerebbe che all’uopo siano più utili liberalizzazioni e sconti fiscali, invece c’è chi immagina si possa incentivare la lettura aumentando i prezzi. In realtà, come suggerisce la seconda parte del nome della legge, il vero obiettivo è il “sostegno delle librerie di qualità e delle imprese editoriali”. Insomma, un cartello fissato per legge che non si pone il traguardo di allargare il mercato, ma di estrarre il massimo della ricchezza dalla piccola platea esistente di lettori.

 

C’è infine la sentenza che ha già fatto il giro del mondo, quella del tribunale civile di Roma che – dopo quella del tribunale di Milano che aveva proibito UberPop, il servizio di autisti non professionisti – mette al bando Uber e qualsiasi app riservata anche agli ncc con licenza. Ciò che più è paradossale, con la motivazione di “concorrenza sleale” in un mercato in cui, di conseguenza, si intende la “concorrenza leale” come assenza di concorrenza. Nella vicenda di Uber le colpe sembrano ricadere, come in altri casi, sulla giustizia e sull’interpretazione ostile alla concorrenza da parte di alcuni tribunali. Pare che dopo le decisioni di politica industriale (Ilva e Tap) e sanitaria (Xylella, Stamina e vacini), la magistratura si spinga anche a decidere su liberalizzazioni e concorrenza. Ma non è questo il caso. Perché la sentenza, seppur discutibile in punta di diritto, su un aspetto fondamentale dice una verità indiscutibile: “Va premesso che il compito di questo tribunale – scrive il giudice Alfredo Landi – non è quello di valutare l’efficienza della normativa vigente ovvero la migliorabilità di detta disciplina in un senso più concorrenziale, come auspicato da più parti, ma di valutare la fondatezza o meno delle contestazioni oggetto del ricorso”. Il giudice applica la legge e se la norma che regola il settore taxi è vecchia di 25 anni, quando praticamente non esistevano i telefoni e internet e a stento si usava il fax, non si può chiedere ai giudici di inventarsene una migliore. In questo modo è la classe politica, incapace di decidere, che chiede alla magistratura di svolgere una funzione di supplenza.

 

Matteo Renzi, circa tre anni fa, disse che “Uber è un servizio straordinario”, ma nel frattempo il suo governo e il suo partito non hanno fatto nulla per aprire il mercato del trasporto all’innovazione. La sentenza che proibisce Uber, così come la norma che vieta Flixbus mettono la politica di fronte alle proprie responsabilità: adesso chi si dice favorevole alle riforme, al mercato, alla concorrenza e all’innovazione deve dimostrarlo.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali