Lo skyline di Detroit (foto Bryan Debus via Flickr)

Il silenzio della sinistra regala Detroit a Trump e populisti

Marco Bentivogli*

Le promesse irrealizzabili del presidente hanno avuto più successo della troppa retorica della candidata democratica che si è innamorata delle elìte della new economy e della finanza

Detroit. Detroit è la capitale delle Big Three - General Motors, Ford e Chrysler (FCA US). È stata un simbolo dell'auto e dell'America operaia del Novecento. È anche la capitale del Michigan, lo Stato del Midwest che a sorpresa i repubblicani hanno strappato ai democratici per 10.704 voti. Solo Bush contro Dukakis aveva vinto nel 1988. Le Aziende sono prima migrate verso il Sud degli Usa a minor costo del lavoro e hanno poi varcato i confini verso il Messico. Detroit, dichiarata fallita a luglio 2013 con un debito di 18 miliardi di dollari ha subìto il doppio colpo del declino dell’automotive e della crisi dall’ultimo quarto del 2008. Detroit ha perduto metà della popolazione negli ultimi 60 anni. Tanta delinquenza, spaccio di droga ma anche rinascita di piccole comunità e aziende di orologi e biciclette come Shinola. Qui i sindacati Afl-Cio e Uaw a Novembre sono stati in prima fila nel sostegno a Hillary Clinton. Un sindacalista Uaw di Fiat-Chrysler, Paul, mi dice: “I lavoratori non si fidano più delle nostre indicazioni. Bisogna capire, forse con Sanders avremmo vinto”.

 

Trump ha vinto parlando ai ceti operai che hanno pagato il maggiore tributo alla crisi. Promesse irrealizzabili che hanno avuto più successo del silenzio e della troppa retorica della candidata democratica che, come ha fatto ovunque la sinistra, si è innamorata delle elìte della new economy e della finanza. Eppure si respira il futuro laddove si combatte per esso. In California ci sono ancora idee geniali ma da una cultura troppo piena di retorica del futuro è passati ad occuparsi con ansia “dell’imminente fine del mondo”. Mercoledì è arrivato Trump qui a Detroit, sa bene che deve occuparsi delle elezioni di mid term, tentando di dare consistenza alle sue promesse irrealizzabili lanciate in campagna elettorale: Il back-reshoring delle fabbriche migrate altrove, se avverrà, rientrerà in Usa forse verso Stati diversi da dove è partito. E quanto costerebbe un’auto riportata qui? E quanto sarà il salario di un lavoratore che è già sceso del 30%?

 

A destra, come a sinistra, si muore di analisi improntate da un determinismo economico, che in Grecia con Varoufakis, in Uk, in Italia il 4 dicembre, in Usa, hanno riempito la bocca dei commentatori. Dietro vi è la lettura banale ed errata che assegna la scelta populista alla lettura solo economica delle disuguaglianze. Già alla fine del secolo scorso le disuguaglianze si sono evolute e diversificate. L’indice di Gini sulla distribuzione dei redditi non basta più. L’accesso al sapere e al potere, la partecipazione, la formazione, l’informazione e la cultura contano sempre di più rispetto al salario. In Italia leggere il voto anti-sistema in base alla disoccupazione non dice tutto, ci sono legioni intere di “Neet volontari” e di analfabeti funzionali tra i disoccupati che combattono dal divano contro il sistema. Non sono vittime della globalizzazione ma del crollo del ruolo della genitorialità e del sistema educativo. Bisognerebbe stare attenti a non confonderli con gli ultimi. Come dice Leonardo Becchetti, “l’economia non c’entra nulla, è la bolla speculativa culturale del nazionalismo la malattia da cui guarire”. Eppure tutti, qui a Detroit come a Roma, Milano, si abbandonano ad analisi tardo marxiste, perché è più semplice e meno impegnativo dire che “la gente ha fame” e sceglie il candidato populista che si avvicina all’ignoranza diffusa con risposte banali e irrealizzabili a problemi complessi; solleva tutti da troppe responsabilità. E Trump ha vinto perché quella che fu la coscienza operaia da tempo sequestrata ovunque dai populisti la si riconquista tra i lavoratori anche perchè aiuta a capire che de-ideologizzare il lavoro è quanto mai urgente. Altrimenti resteremo schiacciati tra chi vuol tassare i robot e chi crede che parlare di lavoro si esaurisca in ridicoli dibattiti sui voucher, i diritti acquisiti e mille fesserie dei garantiti che si spacciano per ultimi. E la sinistra parla solo a questi ultimi perché è molto più elìte decadente di quelle che dice di combattere. Per lo stesso motivo la sinistra ideologica demonizza e quella moderna ringrazia solo l’AD di Fca.

 

La verità è che, nel nostro paese, del lavoro non interessa a nessuno. La sinistra se ne occupa per finta o per i periodici regolamenti dei conti interni. Che i lavoratori si rivolgano ai populisti è il minimo che possa accadere. Per questo Trump mercoledì era qui, perché ha capito (anche se con risposte assurde) quello che la sinistra ha dimenticato: il lavoro, l’industria e la sensibilità dei lavoratori. Il futuro del lavoro e le periferie sono temi profondi. Vuole deregolare i vincoli ambientali introdotti da Obama delle 54 miglia minime per gallone di carburante, sostiene che i salari contrattati dai sindacati siano troppo alti, e punta “a separare i lavoratori dalla leadership sindacale” con un rapporto diretto con i lavoratori (Toh un altro sostenitore della disintermediazione).

 

A Detroit c’è un monumento bellissimo: il Trascending. Una grandissima ruota d’acciaio, incompleta, a significare che il lavoro del sindacato non finisce mai. E oggi questo lavoro, è difendere ancora una volta le persone più delle idee, il lavoro più dei principi astratti. Guardare loro le spalle non da nemici astratti (salva coscienza) ma dalle nostre pigrizie culturali che sono molto peggio della globalizzazione. E’ solo stando tra i lavoratori, dando forma e contenuto positivo alla rabbia e offrendo soluzioni concrete, che si ferma il saccheggio populista, riscoprendo soprattutto un ruolo educativo del sindacato e della politica verso la consapevolezza e la partecipazione dal basso.

 

*Segretario generale Fim-Cisl

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