Contro gli indignati speciali che truffano l'Italia dalle poltrone dei talk show

Giuliano Cazzola

Esodati, pensioni, lavoro. Ecco perché non andrò mai più ospite in una tv luogocomunista

Caro direttore, trent’anni or sono ho smesso di fumare e di bere superalcolici. Più recentemente, dopo una breve presenza su twitter, ne sono uscito perché mi ero stancato di adirarmi nel ricevere insulti da persone che neppure conoscevo. Il bello è che quando annunciai la mia decisione i primi a lamentarsi e a chiedermi di restare in rete furono proprio quelli che mi offendevano con maggiore continuità, mostrandomi a loro modo simpatia. Il che mi fece capire che l’insulto e la polemica erano considerati il modo normale per stare sui social. Tanto che in seguito ho molto apprezzato uno dei personaggi di Maurizio Crozza, quel Napalm1000 che manifesta in rete le sue miserevoli frustrazioni e i suoi personali fallimenti. Ma perché questa premessa di carattere personale e, tutto sommato, riferita a misure di salvaguardia della mia salute? Perché intendo approfittare, direttore, della sua cortese ospitalità per spiegare i motivi (anche di tranquillità d’animo) che mi hanno persuaso a non partecipare più, da oggi, ai talk show; almeno fino a quando non si chiederà conto ai loro autori e conduttori di aver fortemente contribuito ad avvelenare i pozzi del vivere civile e a sfasciare questo povero paese. In verità, non credo che l’annuncio susciti particolari risentimenti e preoccupazioni ("non ce ne può fregar di meno", diranno, "chi crede di essere: Belen?").

 

In fondo, mi sono comportato come un’anziana ballerina a cui è offerta l’opportunità di tornare a sgambettare sulle scene. Ma pur di non ammettere questa umana debolezza (come scrive Qohelet ‘’tutto è vanità e fame di vento’’) addirittura pensavo di rendere un servizio alla verità, contrastando la crescente e inaccettabile demagogia con la quale vengono affrontate le materie di cui mi occupo. Ma proprio qui sta il punto. Mi sono accorto che la mia partecipazione ai talk show si risolveva, spesso, nel concentrare sulla mia persona il cumulo delle posizioni giudicate sbagliate e inique, senza poi essere in grado – anche per la condizione di inferiorità, soprattutto numerica, con gli interlocutori ‘’politicamente corretti’’ e per il ruolo non imparziale svolto dai conduttori – di modificare la situazione, per quanti dati ed argomenti mi prodigassi di esporre. In sostanza, più volte mi sono sentito come un rappresentate del partito dei contadini della Repubblica democratica tedesca (la c.d. Germania Est), strumentalizzato dal regime luogocomunista imperante in tv al solo scopo di simulare un apparente pluralismo. Quindi, costretto dalle dinamiche della comunicazione, a lavorare anch’io per il Re di Prussia, a fare la parte dell’antagonista che serve a confermare la verità ufficiale, la stessa che “passa il convento’’.

 

Ovviamente, non tutti i talk show sono uguali, non tutti i conduttori sono invasivi od orientati. Si va dalle derive di quelli che danno voce a platee plebee, fino alle trasmissioni più paludate. Ma l’aria che tira è più o meno la stessa: sulle tematiche che, per un certo periodo, stanno al centro del dibattito, magari per scomparire poco dopo, vi sono dei luoghi comuni che assurgono a dogmi e che nella discussione vengono assunti come dati di fatto incontrovertibili. Passiamo in rassegna ad alcune di queste ‘’false verità’’ condivise ed accettate, in materia di pensioni e lavoro, con le quali sono stato costretto a misurarmi, quasi sempre inutilmente. Quale è la rappresentazione dell’universo dei pensionati (16,3 milioni di persone)? In generale, vige il leitmotiv del pensionato=povero. Sembrerebbe quasi che nel passaggio dal lavoro alla pensione dovessero cambiare le regole, grazie all’intervento di uno Supremo Giustiziere (un collegio di giornalisti?) che dà a ciascuno non secondo i suoi meriti o demeriti (quanto a lungo ha lavorato, quanto ha versato o quanto ha evaso, quanto percepiva di retribuzione, ecc.) ma secondo i suoi bisogni. Del resto, la rappresentazione "tipizzata" del pensionato italiano è quella di una persona vecchia, macilenta, meglio se in abiti dimessi, che fruga nell’immondizia o, quando va bene, racconta di vivere con redditi da paese in via di sviluppo. Ciò in un contesto in cui si avverte la presenza incombente dei privilegi, dei “pensionati d’oro’’, dei vitalizi dei "vampiri" (l’ultima Croce rossa presa di mira da un intenso cannoneggiamento mediatico) e di quant’altro eccita l’invidia sociale. 

 

Purtroppo, questi casi di povertà estrema esistono e sono anche tanti. Ma non rappresentano la condizione prevalente delle famiglie di anziani in Italia, come dimostrano tutte le statistiche, le indagini e le pubblicazioni ufficiali e specializzate. Anzi, sono le famiglie di pensionati che – nonostante tutto – hanno affrontato meno peggio gli effetti della crisi. Ecco perché occorrerebbe molta cautela nel destinare – come sta avvenendo – risorse importanti alla spesa pensionistica, con l’ossessione di agevolare chi è già pensionato, ma soprattutto, come nell’ultima legge di bilancio, chi è prossimo ad esserlo. La legge dei grandi numeri, infatti, conferma che vi sono maggiori situazioni di difficoltà nelle famiglie monoreddito con figli minori a carico. In sostanza, un minorenne italiano su 10 vive in condizione di povertà assoluta. Nella popolazione tra 18 e 34 anni si è passati dal 3,1 per cento del 2005 al 9,9 per cento di oggi. Dai 35 ai 64 anni dal 2,7 per cento al 7,2 per cento. L’incidenza della povertà diminuisce solo tra gli over 64 (4 per cento). In 20 anni il reddito di questi ultimi è cresciuto del 18 per cento, mentre quello degli under 34 è calato di 11 punti. Eppure, l’84 per cento delle prestazioni assistenziali (quelle destinate a combattere l’emarginazione e a promuovere l’inclusione) è riservato agli anziani. “I longevi – Rapporto Censis – dispongono poi di ‘una solidità patrimoniale che è aumentata negli anni’. Infatti, la ricchezza familiare netta delle famiglie anziane è cresciuta del 117,8 per cento tra il 1991 e il 2012 (quella del totale delle famiglie del 56,8 per cento) e vale in media 237 mila euro. Se nel 1991 gli anziani detenevano il 19,3 per cento della ricchezza nazionale netta totale, oggi la quota è salita al 34,2 per cento. Inoltre, il 79,6 per cento della famiglie anziane (rispetto al 71,6 per cento del totale delle famiglie italiane) possiede almeno un immobile.

 

“Il descritto quadro – è la conclusione del Censis – di buona disponibilità economica dei longevi in generale ridimensiona le letture pauperistiche e che troppo spesso associano la vecchiaia alla povertà e alla marginalità”. Ma di questi aspetti nessuno parla. Anzi, se qualcuno osasse citarli in trasmissione, verrebbe spernacchiato e deriso. In materia di pensioni vi sono state altre campagne tutte orientate nella medesima direzione: dalle salvaguardie per gli esodati (i beniamini dei talk show alla fine della passata legislatura) alla flessibilità del pensionamento, ostinatamente presentate come soluzioni eque ed indiscutibili, a prescindere da qualunque altra considerazione. Eppure Ufficio parlamentare del bilancio ha scritto: “Di salvaguardia in salvaguardia questo requisito comune si è dilatato, e l’ottava salvaguardia è giunta a includere coloro che, con le vecchie regole, avrebbero visto decorrere la pensione entro 7 anni dall’entrata in vigore della riforma “Fornero” (6/1/19)”. Anche la Corte dei Conti ha espresso delle preoccupazioni: “Provvedimenti di salvaguardia che, se nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della riforma del 2011 (il primo, in effetti, incorporato direttamente nella legge di riforma) potevano trovare ragione nei necessari adeguamenti conseguenti alla mancata previsione di una idonea fase di transizione, hanno nel prosieguo interessato una platea sempre più ampia di lavoratori con interventi di carattere non strutturale e privi di chiarezza quanto agli obiettivi di politica previdenziale”.

 

La riforma Fornero viene presentata, senza possibilità di alternative, come un intervento sbagliato, criminale. Il sottoscritto, che la difende, viene solitamente ritenuto un maniaco, una sorta di sado-masochista che sostiene delle posizioni incomprensibili, perché nessuno è autorizzato a mettere in dubbio – nonostante la smentita dei dati ufficiali sull’età effettiva del pensionamento – che agli italiani sia ormai precluso il diritto di andare in pensione se non all’età di Matusalemme. Eppure, è la legge del 2011 la sola che il recente documento della Commissione europea sull’Italia annovera tra le misure virtuose, sottolineando come gli ultimi provvedimenti rischino di depotenziarne gli effetti. E che dire della “busta arancione”? Un’operazione che ha il valore del responso di una chiromante, è stata pubblicizzata sui talk show a prova del destino già scritto dei giovani precari. E la canea contro i voucher? Nessuno dei conduttori “politicamente corretti” e dei loro ospiti sfasciacarrozze si è mai presa la briga di leggere la conclusione di un rapporto dell’Inps: “Al netto dei pensionati, nella stragrande maggioranza non è tanto un popolo ‘precipitato’ nel girone infernale dei voucher dall’Olimpo dei contratti stabili e a tempo pieno (Olimpo a cui spesso non è mai salito) ma un popolo che, quando è presente sul mercato del lavoro, si muove tra diversi contratti a termine o cerca di integrare i rapporti di lavoro a part-time”. E quanti lamentano che il 40 per cento dei giovani è disoccupato, evitano di precisare che la percentuale fa riferimento a coloro che – in età compresa tra i 15 e i 24 anni – lavorano o lo cercano (la c.d. forza lavoro). Rispetto all’intera popolazione di quelle coorti la percentuale scende – ciò non toglie che il fatto sia grave – a poco più del 10 per cento. Ma perché, talvolta, non si potrebbe parlare di qualche esperienza positiva?

 

Del fatto, per esempio, che in Italia sono state costituite 6mila startup innovative, con 3,5 dipendenti e 4 soci in media. Oppure che, nell’ultimo biennio, sono stati creati 968 mila nuovi posti di lavoro (incentivati a caro prezzo). Dalla situazione economica del paese emerge, poi, che gli italiani sono un popolo di “poveri benestanti”. Nel suo 50° Rapporto sulla situazione sociale del paese il Censis ha rilevato che “rispetto al 2007, gli italiani hanno accumulato un incremento di cash pari a 114,3 miliardi di euro, superiore al valore del pil di un paese intero come l’Ungheria, mentre la liquidità totale di cui dispongono (818,4 miliardi di euro nel secondo trimestre 2016) è pari al valore di un’economia che si collocherebbe al quinto posto nella graduatoria del Pil dei paesi UE post-Brexit, dopo la Germania, la Francia, la stessa Italia e la Spagna”. La conoscono questa realtà i conduttori, “indignati speciali”, dei talk show? 

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