La Questione greca alla moviola

Carlo Torino

Mentre continua il contenzioso Fmi-Ue sugli aiuti ad Atene è utile riavvolgere il nastro della disputa: tra l'austerità di Berlino, e il levantinismo dell'Ellade

Roma. Si attende per oggi la pubblicazione dei dettagli relativi ai punti di contenzioso tra il governo di Atene, la Commissione europea, e il Fondo monetario internazionale (Fmi). Ed è stato proprio il legittimo scetticismo di quest’ultimo, inerente agli obiettivi economici imposti alla Grecia in cambio di aiuti finanziari – su cui s’innerva la natura stessa del programma – a seminare uno scompiglio tra le istituzioni, al quale i buoni uffici dei negoziatori dovranno necessariamente porre rimedio… e in fretta. E infatti, se un accordo con il governo di Alexis Tsipras pare essere possibile su alcuni temi – pensioni, allargamento della base imponibile, e innalzamento della soglia minima di contribuzione – su altre questioni d’impellente urgenza si evince invece un dissenso di manifesta inconciliabilità –contrattazione collettiva e licenziamento di massa.          

 

Ma poter credere che un paese così…

con un tasso di disoccupazione del 23 per cento (quella giovanile oltre il cinquanta); una crescita economica appena lievemente positiva nell’ultimo anno; con un sistema finanziario ormai devastato e quasi interamente nazionalizzato, ammorbato com’è da una, si passi la parola, mostruosa e apparentemente irreversibile massa di crediti deteriorati, oggi superiore al 60 percento del credito complessivo; uno smisurato debito pubblico, del 183 per cento in rapporto al prodotto interno lordo; e soprattutto un popolo prostrato, stanco, che volge il volto livido della disperazione verso l’Europa, la quale pare essere ormai tutta assorbita in una folle ebbrezza di austerità e, direi quasi, di crudele rigidità.

…possa addivenire, nel corso dei prossimi tre anni, a generare un avanzo primario di bilancio (escludendovi dal computo gli interessi sul debito), del 3,5 per cento, è a dir poco ingenuo.

 

E mette oltremodo in rilievo una certa predisposizione a cadere in meravigliose illusioni, che una realtà indifferente alle nostre ambizioni mondane non troppo si curerà di sconfessare. E che ciò possa addirittura accadere senza imporre ulteriori ed estremi sacrifici a una popolazione sempre più in balìa di una miseria di cui l’occidente non ha memoria, è profondamente immisericordioso.

 

Da questo seducente incantesimo – e forse, anche da questa sublime malafede –  si è venuto però ad affrancare il Fmi: il quale, in occasione della revisione ancora in corso sui progressi del governo ellenico relativi al programma di aiuti concessi ad Atene, non ha esitato attraverso i suoi directors – e a mezzo di un ampio rapporto lungo oltre novanta pagine – a dichiarare inattendibili le stime della Commissione europea inerenti a crescita e sostenibilità del debito. E a questo proposito, appaiono quanto mai evocative le considerazioni sollevate da Lorenzo Bini Smaghi (sul Financial Times) inerenti a quello che si può ormai legittimamente definire come un endemico vuoto di fiducia che intesse in maniera insidiosa i rapporti tra le istituzioni – o forse dovremmo dire tra gli uomini (e donne) che quelle istituzioni rappresentano – che hanno partecipato al programma di aiuti: lo Esm (European Stability Mechanism) d’intesa con la Commissione europea, l’Fmi, e la Banca centrale europea (Bce).

 

Le ostilità tra i negoziatori

Rapporti sempre più permeati da un’agre diffidenza, e sovente da un’aperta ostilità tra alcuni dei loro membri, che non alto fa se non gettare in un’insofferenza gravida di sospetti tutti coloro i quali avevano, pur con improvvido coraggio, riposto le loro speranze in una ripresa che sembrava quanto mai imminente: e d’altronde spesso annunciata pubblicamente da quegli stessi rappresentati, oggi partigiani di ideologie in conflitto.

 

E negli anni intercorsi tra il secondo programma di aiuti, risalente al 2012 – il quale ebbe a succedere a una serie di concessioni estese nel 2009 dall’Unione europea, su base bilaterale, per un ammontare di 59 miliardi – e l’agosto del 2016, quando un terzo programma si rivelò esser necessario, di progressi nei conti Atene ne ha tuttavia compiuti, e di notevoli, in virtù di un’atroce svalutazione interna: e non senza pagar dazio nella forma di una profonda e spesso violenta destabilizzazione sociale.

 

La bilancia dei pagamenti è stata ricondotta in pareggio: da un deficit del 15 per cento nel 2009; Il deficit primario, addirittura del 12 nel 2009, è stato posto al centro di un’ampia correzione – la quale ha contemplato anche una radicale revisione dell’assetto pensionistico: troppo garantista nei confronti delle generazioni pregresse, e incomprensibilmente ingeneroso verso quelle attuali -, portandolo ad un avanzo, oggi, nell’intorno dell’uno percento. Tutto ciò in un contesto di rigidità strutturali connaturato a un’unione monetaria, la quale nei fatti depriva della possibilità di svalutare il cambio a giovamento della competitività.

 

E sarebbe d’altro canto alquanto ingiusto affermare, come certuni (in modo particolare oltre Atlantico), che le istituzioni europee si siano mostrate indifferenti e insufficientemente reattive innanzi al problema. E a questo proposito occorre ricordare che Atene ha potuto godere sino ad oggi di oltre duecento miliardi stanziati dai primi due programmi, ai quali vanno a sommarsi ulteriori 86 miliardi approvati in agosto: e dei quali 31 già debitamente erogati.

In aggiunta, un piano di revisione del debito è già stato prontamente concepito, il quale contempla una, sia pur lieve, sorta di alleggerimento nella struttura delle passività, ottenuto grazie a due meccanismi: il primo afferente la sostituzione delle obbligazioni a tasso variabile emesse dal Meccanismo di stabilità – e trasferite al Fondo ellenico con la finalità di ricapitalizzare i due istituti di credito (National Band of Greene e Piraeus) che si sarebbero altrimenti dovuti dichiarare insolvibili, e dunque lasciar fallire: con conseguenze inimmaginabili per il già precario equilibrio sistemico – con titoli a tasso fisso, immunizzando in questo modo Atene dal rischio, oggi alquanto concreto, di un rialzo dei tassi. Il secondo, contempla invece un successivo riacquisto, da parte del Meccanismo di stabilità, di quegli stessi titoli a tasso fisso – in una data futura non ancora determinata – evitando in tal modo che le banche elleniche vengano ad essere esposte ad una riduzione nel valore dei loro attivi conseguente ad un rialzo inatteso dei tassi. Questa seconda operazione, a differenza della prima, prevede un effettivo esborso di contante: per il quale si ricorrerà a un’emissione obbligazionaria sotto l’egida dell’Esm.

 

I tormenti di Atene corrispondono alle angosce europee

Una serie di misurati sforzi che se da una parte mostrano comprensione e un vago senso di indulgenza verso un popolo inchiodato alla croce del suo malcostume, dall’altra rivelano invece una larvata indifferenza morale verso le sofferenze di un paese che non possiede più le energie sociali, e non crede più in quelle virtù civili necessarie a una rigenerazione non solo economica.

 

Ma si è ben compreso che le angosce e i tormenti di Atene costituiscono i tormenti e le angosce europee: benché l’economia greca non sia di dimensioni tali da lasciar presagire un’automatica conflagrazione del progetto europeo; s’è però visto quali clamori generi un suo improvviso deterioramento, o anche il più insignificante segnale che il governo possa deflettere dagli impegni presi: figuriamoci di un’inversione (frutto anch’essa in fondo di quell’abituale dialettica democratica così naturale nei paesi liberi dell’occidente - e alla quale anche la Grecia stessa s’era così ben acconciata dopo anni in pieno tumulto -; la quale contempla finanche la possibilità che vi possa essere chi non condivide; chi con onestà intellettuale voglia far da fronda alla repentina, e a modo suo responsabile, compiacenza di Tsipras nei confronti della Troika).

 

Ma queste considerazioni non hanno alcun valore per chi crede, come ebbe a dire di Napoli Lord Rosebery, che Atene sia la sola città orientale al mondo a non avere un quartiere europeo: a sottolinearne il carattere profondamente levantino nel costume politico e morale di quel popolo. E come biasimare coloro i quali, come Bob Diamond: già plenipotenziario di Barclays Capital, caduto in disgrazia a seguito dello scandalo Libor, che con il suo fondo Atlas Merchant ha rilevato dal Crédit Agricole una società greca concessionaria di credito al consumo, con l’intento di trasformarla in un veicolo preposto a originare operazioni di acquisto di crediti deteriorati (non-performing loans), e successivamente a cartolarizzarli: in questo modo dischiudendo a un ampio universo d’investitori internazionali le opportunità che il mercato greco presenta. A condizione però che non si devii dal sentiero dell’austerità, e che la fiducia dei mercati non venga intaccata. Come si può dunque biasimare il più completo disinteresse di questi soggetti nei confronti delle libertà democratiche e civili del popolo greco?

 

Il fato dei greci è scritto (anche) dai greci

Ad ogni modo va pur sottolineato che un certo malanimo, così invalso presso più di una cancelleria europea, nei confronti di Atene, non sia poi così gratuito. E a questo proposito, è quasi superfluo evocare che in Grecia più del sessanta percento della popolazione non è soggetta ad alcuna forma di imposizione fiscale; che la soglia di reddito al disotto della quale non si viene tassati è inammissibilmente elevata; e che i due terzi degli imprenditori commerciali si dichiarino agricoli alfine di evitare l’imposta societaria; che il coefficiente di trasformazione previdenziale – il quale determina il trattamento pensionistico in base all’ultima retribuzione – rimanga tra i più alti in Europa, nonostante la recente riforma. Che la masnada di armatori greci, i quali hanno per lo più lasciato che le loro aziende fallissero con disperazione dei loro dipendenti (molti dei quali rassegnatisi a un futuro torbido di disoccupazione e inoperosità); quegli uomini d’affari i quali non hanno mai reso un centesimo di tasse, celati al di là di un’impenetrabile cortina erta su complesse strutture societarie riconducibili a paradisi fiscali. Essi osservano, oggi,  – spiriti puri – lo sfacelo della loro nazione nel tepore delle loro incantevoli case di Park Avenue o di Knightsbridge.

 

Insomma, quella sfiducia di cui parla Bini Smaghi è in fondo legittima e forse addirittura, in parte, condivisibile. Ma se l’Europa vuole rifuggire da quella sua triste abitudine di insistere nell’aver ragione oggi per scoprire poi di aver torto domani, deve mutare il suo approccio nei confronti di Atene: condonare eventualmente una parte del valore nominale del debito (come suggerito dal Fmi); concedere più spazio fiscale (Krugman e Stiglitz), e non ostinarsi a imporre irrealistici obiettivi di avanzo primario: i quali a nulla conducono se non a un incremento della povertà nelle classi più disagiate, lasciando indenni quelle che godono di maggiore protezione.

 

Atene, tuttavia, deve dipanare i dubbi relativi al suo destino e scegliere se completare quel processo storico che la porterà ad essere una nazione veramente europea; o se altrimenti cedere a quella sua antica vocazione levantina – anch’essa tuttavia legittima da un punto di vista storico-politico – che la porterà fuori dall’euro, e fuori dall’Unione Europea: a divenire forse una nuova Bisanzio, una quarta Roma, così splendida e pur così corrotta.

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