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Perché la “censura” di Google contro Messora è una fake news

Carlo Alberto Carnevale Maffé

Per smentire le voci di chi ha gridato al complotto, occorre capire i meccanismi del mercato pubblicitario digitale

Il prezzo delle bufale non è la censura, ma l’irrilevanza. Poiché esse danneggiano la reputazione di chi vi si ritrovi associato, anche solo indirettamente, tramite una semplice inserzione pubblicitaria, è legittimo che le aziende preferiscano starne alla larga, a tutela del proprio brand. Sono quindi prive di fondamento le reazioni scandalizzate per la decisione di Google di risolvere il contratto di distribuzione pubblicitaria con il sito “byoblu.com” gestito da Claudio Messora, ex responsabile della comunicazione di un’organizzazione politica gestita dalla Casaleggio Associati srl.

 

Per smentire le voci di chi ha gridato al complotto e alla censura, occorre capire i meccanismi del mercato pubblicitario digitale. Gli effetti di esternalità negativa dei contenuti ingannevoli o di qualità discutibile si riverberano infatti sull’immagine dell’inserzionista, che spesso sul web non ha il controllo preventivo sul tipo di sito che ospiterà i propri messaggi pubblicitari. Per decenni l’arte e il mestiere delle concessionarie pubblicitarie per i media tradizionali sono stati non solo quelli di vendere spazi o spot, bensì anche di saper trovare la migliore congruenza semantica nell’associazione tra contenuto editoriale e messaggio pubblicitario. Questo non solo per ragioni di coerenza del target, ma anche per affinità di linguaggio. In pratica, la concessionaria pubblicitaria ha sempre accuratamente selezionato non solo le testate editoriali sui cui posizionare i messaggi dei propri clienti, ma spesso anche le sezioni, se non le singole pagine di un giornale o i singoli moduli di una trasmissione radio o tv, privilegiando quelle coerenti col brand, ed evitando quelle squalificanti.

I robot software che allocano la pubblicità sul web, invece, sono ancora abbastanza stupidi e spesso si limitano ad associare qualche parola chiave ai cookies di profilazione dell’utente. Anche per questo forse non sarebbe il caso di tassarli, poverini, come invece intende fare il socialista Hamon, candidato alle presidenziali francesi. La stessa Google ha imparato nel tempo e a proprie spese la difficile lezione dell’associazione semantica e valoriale tra contenuti e pubblicità, per poter arrivare a garantire ai propri inserzionisti la necessaria congruenza con l’immagine del brand. Big G ha quindi messo a punto nel corso degli anni politiche molto restrittive per i siti sui quali distribuisce la pubblicità online con la propria piattaforma AdSense, escludendo servizi che promuovono offese personali, o guadagni del tutto improbabili, o pagine web che offrono falsi diplomi o tesi universitarie copiate. La lista dei contenuti che non vengono promossi da AdSense è oggi chiaramente indicata nelle “content policies” adottate dall’azienda di Mountain View, che in casi di violazione si riserva di risolvere – anche unilateralmente – il contratto di distribuzione: alcool, tabacco, droghe e stupefacenti, pornografia, siti che promuovono aggressioni o attacchi contro persone o organizzazioni, contenuti collegati all’uso delle armi, sistemi di hacking e di attacchi informatici, servizi che promettono guadagni facili, contenuti illegali, disonesti o ingannevoli. E’ proprio quest’ultima categoria a rappresentare il tema più controverso, data l’oggettiva difficoltà a definire che cosa costituisca contenuto ingannevole o “fake news”. Solo negli ultimi due mesi del 2016, Google ha comunicato di aver sottoposto a revisione 550 siti web segnalati dagli utenti per i loro contenuti non corretti o ingannevoli. Verso 340 di questi siti è stata intrapresa un’azione tesa a far rimuovere i contenuti che violavano le policies di Google, e circa 200 siti sono stati definitivamente esclusi dalla piattaforma pubblicitaria AdSense.

 

Il traffico generato dai circa 100mila utenti del sito di Messora non sarà quindi più promosso dalla piattaforma distributiva Google AdSense, e il giornalista-editore appassionato di “fatti alternativi” dovrà cercarsi un’altra concessionaria pubblicitaria tra le numerose attive in Italia. In termini economici, Messora grida al complotto per quella che in realtà è una normale e legittima scelta di politica commerciale da parte di un canale distributivo attento alla qualità dei propri servizi e alle richieste dei propri clienti. AdSense è tra i leader di mercato, ma può agevolmente essere sostituito da numerose concessionarie alternative, in un contesto molto competitivo come quello della pubblicità sul web, che in Italia ha raggiunto nel 2016 un valore prossimo ai 2,5 miliardi di euro.

 

Non è corretto quindi in questo caso parlare di censura, o tanto meno di “complotto neoliberista” per “mettere a tacere una voce libera”, in quanto il sito è perfettamente accessibile al pubblico, sia direttamente sia tramite i principali motori di ricerca, Google incluso. Ben diversa – e certamente da criticare con forza – sarebbe stata l’eliminazione del sito dall’indicizzazione dei motori di ricerca, che la Commissione europea tende a considerare alla stregua di “essential facilities”, ovvero infrastrutture basilari di valenza pubblica, e che quindi vanno mantenuti aperti e inclusivi, anche a costo di indirizzare il traffico di curiosi verso siti di “fake news”. Chi scrive condivide da sempre la battaglia contro ogni censura, ed è profondamente scettico verso fantasiosi progetti di Autorità Ufficiali della Veridicità (come proposto dal presidente dell’Antitrust). Le migliori risposte a chi produce e diffonde bufale rimangono la tecnologia di tracciabilità delle fonti, la sanzione economica degli attori del mercato pubblicitario e l’educazione critica di chi legge.

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