Il presidente cinese Xi Jinping (Foto LaPresse)

Il rame di Xi

Ugo Bertone

Perché la frenesia per i metalli nasce in Cina e non dalla frenesia per Trump

Chiusi per ferie. Diverse agenzie di brokers del London Metal Exchange il mercato londinese delle commodities che opera da 140 anni nel cuore della City, hanno esposto questo cartello (virtuale) all’inizio della settimana, in coincidenza dell’inizio delle vacanze per la celebrazione dell’Anno Nuovo, secondo il calendario cinese. La conferma si è avuta già lunedì, quando l’attività della Borsa delle materie prime, ormai controllata da una società di Hong Kong, ha visto precipitare gli scambi del 50 per cento abbondante, da 55 mila a 24 mila contratti. Insomma, per il rame come per l’alluminio o il ferro, come per altri metalli legato al ciclo dell’industria manifatturiera, il centro del mondo si è ormai spostato a est. E sembra destinato a restarci, anche se i vertici di Pechino ribadiscono di voler spostare il baricentro dell’economia dall’industria ai servizi.

 

Ma attenzione: la “fame” cinese di metalli non è solo legata agli enormi investimenti nell’edilizia o nelle infrastrutture che, nonostante le dichiarazioni disegno inverso, continuano a caratterizzare l’economia cinese. A favorire il flusso dei capitali cinesi verso i mercati delle commodities contribuisce da almeno un anno la ricerca da parte delle società del Drago di investimenti finanziari in grado di eludere i controlli sul movimento di capitali. Ma le materie prime hanno altri motivi di attrazione per i cinesi. Per quanto riguarda gli investitori privati, scrive il Financial Times, “le commodities sono considerate dagli investitori cinesi come un modo per scommettere sull’andamento della loro economia ma anche, negli ultimi mesi, come un modo per puntare sulla forza del dollaro, un’attività sempre più diffusa dopo l’elezione di Donald Trump”.

 

Ma gli acquisti di rame ed alluminio da parte delle aziende cinesi dell’ultimo anno, sotto la regia del potere centrale, sono stati una mossa di politica economica, messa in atto per sostenere la congiuntura ed evitare il tracollo di una parte dell’economia cinese. La ripresa di fine anno, che ha permesso di centrare con sospetta precisione, l’aumento del pil auspicato, ha provocato l’aumento dell’indice dei prezzi alla produzione cinesi e, di riflesso, sostenuto la reflazione globale che da Pechino si è diffusa ai mercati dell’intero pianeta, una mossa che, spiega Giuseppe Sersale, strategist di Anthilia Partners, ha avuto un ruolo fondamentale nel rialzo dei mercati finanziari di fine anno.

 

La ripresa attribuita all’effetto Trump, insomma, è stata in buona parte resa possibile da Pechino, la grande nemica. Di qui un grosso punto interrogativo. Fino a che punto sarà sostenibile l’attesa di reflazione globale nel prossimo futuro? Molto dipenderà dalla tenuta degli acquisti di Pechino, messi a rischio dall’offensiva anti-globalizzazione di Trump. È la domanda chiave che i mercati si faranno nei prossimi giorni, una volta che le fabbriche cinesi riapriranno i battenti dopo la lunga vacanza di Capodanno, Così come gli uffici della City, che dipendono dalle festività cinesi come i bagnini di Alassio dalle ferie della Fiat negli anni del boom. “Non capitava fino a 4-5 anni fa” è il commento di un trader. Ma da allora è esplosa l’attenzione dei piccoli speculatori cinsi, così aggressivi fa aver dato vita , nel 2015 ad un hedge con un nome che rea un programma, Chaos group. È durato poco, non più di tre mesi, ma riuscì a creare grossi danni al mercato. Oggi il clima è ben più sereno, grazie anche agli scioperi in Cile, a Escondita, la più importante miniera del mondo, che ha permesso ai prezzi di risalire oltre i 6.000 dollari alla tonnellata, il 16 per cento in più di inizio dicembre. E le prospettive restano buone, almeno finché fioccheranno gli ordini dalla Cina. O, ben più importante, Washington saprà o vorrà raccogliere il testimone.

 

Chiaramente questo è un monito per la sostenibilità delle attese di reflazione globale maturate di recente. Ma è anche vero che l’economia cinese al momento sta tirando (vedi Li Keqiang index pubblicato giorni fa) e la domanda di commodities non sembra debba sparire da un giorno all’altro. Diciamo che ci si guarda tra uno o due mesi, quando gli effetti base inizieranno a mordere. Nel frattempo, la PBOC ha allentato la morsa sui tassi a breve, e lo yuan offshore si è ulteriormente normalizzato. Quanto prima che ricominciamo a parlare di svalutazione? Le autorità hanno ulteriormente irrigidito i controlli sui capitali, per cui anche qui aspettiamo e vediamo.

 

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