Corrado Passera (foto LaPresse)

La globalizzazione non è finita, va solo agganciata. Parla Passera

Alberto Brambilla

“Più del trumpismo preoccupiamoci della debolezza europea. Mps? La nazionalizzazione si poteva evitare”

Roma. Di ritorno dal Forum di Davos, chiuso venerdì scorso – una 47esima edizione un po’ sottotono ma che ha fatto molto discutere per i timori sul protezionismo del presidente americano Donald Trump e per la sorprendente difesa della globalizzazione del segretario del partito comunista cinese, Xi Jinping – Corrado Passera, ex manager (McKinsey, Olivetti, Poste), ex banchiere  (Intesa Sanpaolo), e già ministro (per lo Sviluppo economico) da veterano dell’happening della finanza (ultimamente delle internet company) sulle Alpi svizzere, al quale viene invitato da più di vent’anni, si discosta dal pensiero unico anti-trumpista.

 

Passera lei crede alle minacce di chiusura di Trump? “In realtà nessuno prevede interventi di portata significativa contro il commercio internazionale da parte di Trump: non ci si aspetta che la nazione portabandiera dell’economia di mercato e della globalizzazione cambi drasticamente posizione. Se c’è un punto su cui il consenso è quasi unanime, sia nel mondo sviluppato sia in quello in via di sviluppo, è proprio la condanna del protezionismo”. Ian Bremmer, analista del think tank Eurasia group, ha detto che il cosiddetto populismo non è una minaccia ma la conseguenza di una serie di fattori, ma pochi l’han capito: il populismo è Trump? “Ha alcune fattezze populiste – ‘parlo col popolo, i governi non hanno funzionato, l’America agli americani’ – pur venendo dal sistema. Vediamo come si comporterà, quello che ha detto in campagna elettorale potrebbe cambiare se non nel tono nella sostanza, probabilmente si renderà conto che accordi pacifici e atlantici (Tpp e Ttip) sono nell’interesse del mondo occidentale libero. Certo in un mondo G-zero, come dice Bremmer, cioè senza consessi (G7, G8 ecc.), dove si affrontano insieme problemi globali, guai a non capire l’ansia e la paura che dominano strati ampi della società”.

 

Xi è stato accolto a Davos come il nuovo globalizzatore senza che gli ospiti facessero un plissé: è parso strano? “Ripeto: il protezionismo non è invocato da nessuno, cinesi compresi, e, a questo proposito, noi europei dobbiamo adoperarci per primi a favore del libero commercio. Pagheremmo maggiormente una deriva protezionistica. Ma essere liberisti non significa ignorare anche le conseguenze negative della globalizzazione. Sul No al protezionismo si sono trovati d’accordo persino Regno Unito e Unione europea che per il resto negli ultimi giorni si sono trattati a pesci in faccia”.

 

L’Europa sembra il classico vaso di coccio: un continente unito dalle guerre, prima militari, e poi dai conflitti, politico-finanziari, può ritrovare nella minaccia del disimpegno americano, e del distacco britannico, la spinta a unirsi? “L’Unione europea deve considerare la Brexit un fortissimo richiamo alle sue responsabilità se vuole evitare lo sfilacciamento irrimediabile del progetto europeo. Segnali forti dovranno venire a breve se vogliamo ridurre i rischi, anche per la crescita, che possono derivare dalle elezioni in Olanda, Francia e Germania. Sono convinto da tempo che l’Ue deve continuare a insistere sul rigore nel ridurre le spese correnti e gli sprechi (solo così si potranno ridurre le tasse), sulle riforme profonde per aumentare la competitività continentale e sulla capacità di produrre lavoro. Ma deve anche dare un segnale fortissimo a favore della crescita sostenibile, non è più rimandabile – dice Passera – E’ il momento di un piano straordinario e accelerato di investimenti in ricerca e innovazione, in formazione e in infrastrutture per rimettere in moto l’Europa. E’ il momento di dimostrare l’utilità degli Eurobond: almeno 1.000 miliardi di euro per innescare quel piano di cui parlavo che dovrà vedere collaborare il privato e il pubblico. Il Piano Junker è inadeguato, non avrà effetti percepibili sulla crescita europea. Possiamo ancora essere un protagonista ma rischiamo la marginalizzazione”.

 

Le élite continentali sono in crisi di leadership e di idee, e le élite stesse ne hanno discusso a Davos dimostrando quanto siano autoreferenziali: hanno la forza di fare quello che dice? “Le debolezze delle leadership europee non fanno sperare nulla di buono. L’incapacità di far intravedere un progetto di sviluppo inclusivo e convincente sta favorendo il gioco dei populisti estremi. Non ci fa guardare in faccia problemi di medio periodo che, se non affrontati con visione e determinazione, potrebbero travolgerci in un futuro prossimo”. Quali? “L’immigrazione, che richiede la messa a punto dei modelli di integrazione e allo stesso tempo dei meccanismi urgenti di contenimento. L’invecchiamento delle popolazioni che non è accompagnato da sistemi di previdenza e protezione sociale adeguati. Quasi ovunque nel mondo, anche in Italia, ci si potrebbe presto trovare con generazioni intere, anziane o molto anziane, incapaci di sostenersi. E le nuove povertà, sempre più diffuse anche nei nostri paesi, che unitamente alle crescenti disuguaglianze sono inaccettabili”.

 

In questo gorgo anche l’Italia appare marginale e se n’è avuta prova a Davos dove la delegazione italiana non era folta e per di più stranamente assortita – Pier Carlo Padoan (ministro Economia), Mario Monti (ex premier), e poi Carla Ruocco (Movimento 5stelle), per l’occasione attirata nella tana dei “poteri forti”. Cosa ne pensa? “L’Italia ha una reale possibilità di contare solo come protagonista di una Ue rinnovata, nei grandi giochi tra le grandi aree economiche nessun singolo paese può giocarsela contro Stati Uniti, Cina ed eventualmente Russia. L’Europa è una delle più grandi aree economiche e se trova l’energia di rilanciare un modello fatto di competitività, e anche di diritti e solidarietà, può avere un futuro di benessere. Rapporti costruttivi tra America e Russia sarebbero un vantaggio per noi e per l’umanità, ma non sulla testa dell’Europa. L’Italia può giocarsi la partita dei nuovi settori industriali, può essere ponte per l’inevitabile partnership con il mondo mediterraneo, cosa che non sta facendo: il tema dell’immigrazione, dei rapporti con la sponda sud, dipenderà dai rapporti col Nordafrica ma ci vuole visione di medio periodo e cooperazione economiche importanti. Purtroppo da noi si parla di dettagli e ci si illude che rinfrescando l’intonaco si rafforzino le fondamenta del paese. Il mondo sta andando a una velocità pazzesca, noi siamo quasi fermi. Stiamo perdendo anni preziosi, guardiamo indietro anziché avanti, scambiamo l’ambizione con gli annunci e non abbiamo il coraggio di cambiare veramente ciò che non va. Abbiamo perso imprese e talenti in questi anni e siamo fuori da tutti gli schermi internazionali. Possiamo farcela, mi dice? Sí, certamente. Ma non così”. E come allora? “Serve ascolto, ambizione, visione convincente di società e di economia alternativa a quella dei populisti, e coraggio nell’affrontare problemi irrisolti. Si stanno aprendo mondi nuovi con enormi potenziali (robotica, genomica, medicina di precisione, Internet delle cose ecc.) ma non ci si prepara ai lavori del ventunesimo secolo con un sistema scolastico del diciannovesimo secolo! Bisogna imparare ad imparare per tutta la vita. Per dire: non possiamo più ignorare che nei primi sei anni di vita ci si gioca molti aspetti della successiva capacità di apprendere dei bambini e che nei primi tre anni, senza adeguata alimentazione e stimoli, si rischia di compromettere irrimediabilmente alcune capacità molto rilevanti nella vita: è anche l’occasione per valorizzare appieno le scuole paritarie. In Italia siamo lontanissimi da tutto ciò. I cicli scolastici e i metodi di insegnamento sono da reiventare. Se ci si limiterà a subire i trend in corso non si va lontano, ma ci si condanna a un futuro di povertà”.

 

Sembrava ottimista ma il pessimismo dell’ottimista bene informato forse ha preso il sopravvento… “Ci sono elementi per essere moderatamente ottimista. Nel corso del 2016 si erano consolidate previsioni positive in tutte le grandi regioni del mondo. Ma i trend devono essere ‘cavalcati’ – non subìti. Prenda il lavoro: un mondo del lavoro che cambia significa una società che deve cambiare scuola, imprese, sindacato, sistemi previdenziali, protezione sociale, rapporti tra mondo pubblico, privato profit e terzo settore. Di fronte a cambiamenti di tale portata le reazioni saranno le più diverse e inizialmente prevarrà, come sta già succedendo, l’incertezza, ansia, paura. Gestire cambiamenti di questa entità è una sfida storica per le classi dirigenti e la storia dice che non sempre si riesce a farlo. Questa volta ci sono coloro che semplificano in modo demagogico, strumentalizzano le paure scagliandosi contro i presunti ‘colpevoli’, offrendo soluzioni semplicistiche, autoconsolatorie, vaneggiando ritorni a un passato in parte mai esistito e comunque non replicabile, delegittimando le istituzioni per ‘avere un rapporto diretto con il popolo’. Sono i populisti: la storia dice che le forze politiche che li rappresentano rischiano addirittura di prevalere quando le crisi economiche durano troppo a lungo, come quella che viviamo”.

 

A proposito di previsioni: ne abbiamo sentite molte dagli economisti (sbagliate), ne abbiamo sentite altrettante a Davos (discussioni non puntuali) e ne abbiamo sentite anche dai banchieri italiani a proposito di un sistema “solido” che poi solido non era. Vi siete sbagliati anche voi? “L’Italia ha superato meglio degli altri la prima crisi bancaria (2008 - 2011) perché riguardava i titoli tossici, i derivati e la turbofinanza. Ma essendo legati all’economia reale, quella crisi l’avevamo superata meglio di altri senza nazionalizzazioni, soldi pubblici, mentre altri grandi paesi erano crollati. Poi si è prolungata la recessione e per le nostre banche, fatte soprattutto di economia e non di finanza, ciò ha portato alla crescita delle sofferenze e alle perdite su credito, e siamo stati colpiti più di altri sistemi bancari. La solidità delle banche va vista alla luce di entrambe le crisi. Ora c’è un’altra sfida: margini più bassi, nuove regole e nuove tecnologie, alcune banche ce la faranno e altre no”. Intanto però il costo dei salvataggi, in ottica emergenziale, Montepaschi in primis, è sostenuto con miliardi di euro dei contribuenti. “Considero sbagliato salvare a tutti i costi banche non sostenibili. Montepaschi, come avevo proposto, poteva però evitare la nazionalizzazione. Certo è che da troppo tempo il nostro paese non cresce: serve un deciso cambio di passo se vogliamo creare veri posti di lavoro. La crescita non può che venire dalle imprese ma lo stato può fare molto per facilitare un grande piano-paese: deve far ripartire gli investimenti, accelerare le infrastrutture, incentivare nuove tecnologie, attirare laboratori di ricerca internazionali con forti crediti di imposta strutturali, dimezzare l’Ires (imposta sul reddito delle società), defiscalizzare la contrattazione di secondo livello, puntare tanto su istruzione e formazione, fare dell’Italia una startup nation come altri hanno fatto, per dare un’opportunità ai giovani e alle persone in gamba di ogni età”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.