Anche Atac, l’azienda del trasporto pubblico romana, tra i debitori del Monte dei Paschi di Siena (foto LaPresse)

La gogna bancaria

Stefano Cingolani

Tutti a gridare “fuori i nomi” ma i nomi si conoscono già. Gli istituti di credito vivono una crisi così grande che nessuno potrà mai risolverla con una lista di proscrizione

Fuori i nomi. In realtà, i soliti noti li conoscono tutti, sono scritti nero su bianco nei bilanci del Monte dei Paschi di Siena: dalla A come Alitalia alla Z come Zalesky e Zunino, passando per Atac, Ligresti, Merloni, Mezzaroma con il Siena calcio, Ntv (i treni Italo di Luca di Montezemolo), Sansedoni (immobiliare), Sorgenia (la Cir di Carlo De Benedetti), il sillabario è ricco e vario. Messi insieme fanno al massimo due-tre miliardi di euro, lo conferma al Foglio anche Alessandro Profumo che i conti Mps li ha visti da vicino. E gli altri 45 miliardi di crediti non esigibili o deteriorati? Fuori i nomi, allora, quelli degli amici degli amici, la “lista segreta” della quale si occuperà la commissione parlamentare d’inchiesta, ça va sans dire. Perché non c’è scandalo senza segreti, non c’è segreto senza un catalogo accuratamente nascosto in cassaforte, non c’è commissione parlamentare senza grimaldello. Siamo il paese della P2 (poi P3, P4, adesso P5 fino alla P38) e guarda caso Castiglion Fibocchi è in provincia di Arezzo, sede e base da oltre un secolo della Banca Popolare dell’Etruria. Quanto a Siena, con il buon governo dotato di compasso e grembiule, hai voglia a liste e segreti. Eppure, le quattro banchette fallite (pardon, “risolte”), hanno aperto i libri contabili alla vigilanza della Banca d’Italia, al Tesoro, alla Finanza, alla magistratura, ai nuovi proprietari (la Ubi per Etruria, Marche e Chieti, pagate un euro, e Cariparma per Ferrara). Forse c’è qualcosa di altamente antipatico scritto con l’inchiostro simpatico? Parli chi sa. Il sarcasmo, scrive la Treccani, è una “ironia amara e pungente, ispirata da animosità e quindi intesa a offendere e umiliare”. Dunque, meglio abbassare i toni.

C’è un problema di trasparenza, scrive sul Sole 24 Ore Luigi Zingales, l’insigne economista della scuola di Chicago che fa onore all’Italia nel mondo. E c’è un problema di dignità ed equità visto che i soldi per i salvataggi vengono dalle tasche dei contribuenti, come sostiene il già liberale Antonio Patuelli, imprenditore, politico, giornalista, banchiere, presidente della Cassa di Risparmio di Ravenna e dell’Assobancaria, la lobby di categoria. Trasparenza, equità, dignità per chi fa il lavoro di prestare i soldi altrui, presi non da un club di ricchi crapuloni, ma attinti al pubblico risparmio tutelato dalla Costituzione. Tutto vero, chi lo nega. Ed è difficile negare che chi doveva vigilare ha marcato visita come i pizzardoni romani, chi doveva governare la crisi l’ha rimossa mettendo la testa sotto la sabbia e la polvere sotto il tappeto. Con tutti questi rumori fuori scena, non è chiaro cosa farà la commissione parlamentare. L’unica certezza è che c’è materia per scrivere la storia economica d’Italia negli ultimi trent’anni se non finirà prima la carta. La voglia insopprimibile di piazzale Loreto, luogo ideale per la nuova gogna bancaria, la libidine del complotto, la scorciatoia della ghigliottina hanno preso il sopravvento, come spesso accade in Italia (e non solo, perché chi è senza boia scagli la prima pietra). E’ diventato quasi impossibile ragionare in base ai fatti, riportare discorsi generici e fumosi alla prova della realtà. E anche chi potrebbe non lo fa. L’onorevole fino a prova contraria Alessandro Di Battista, penna vagabonda beneficiata dal “movimento leninista” chiamato 5 Stelle, sostiene dagli schermi de La7, dove è ospite fisso, che i 20 miliardi accantonati dal Tesoro per salvare le banche potevano essere destinati al reddito di cittadinanza.

Nessuno tra i preclari ospiti intervenuti gli ha spiegato che si tratta di scambiare le mele con le pere. I 20 miliardi sono una tantum, si tratta di investimenti e si spera che rientrino anche in forma di utili, mentre il reddito di cittadinanza non può essere concesso una sola volta, è spesa corrente e i contribuenti lo perdono per sempre. Ma perché fare i pedanti, meglio lisciare il pelo alla “bestia trionfante”. Ai tempi di Giordano Bruno c’era stato un monaco austero come Martin Lutero, oggi chi c’è, un comico riccioluto e à la page come Beppe Grillo? Va bene, lasciamoci pure alle spalle piazzale Loreto, ma le cose sono andate di male in peggio, è evidente. Errori ne sono stati commessi in abbondanza, men che mai, dunque, bisogna cancellare le responsabilità di chi ha sbagliato. Ancor più sbagliato, però, è il racconto demagogico, l’escursione sbilenca degli eventi che sono i migliori testimoni del tempo. Forse sarebbe utile riepilogare senza sangue agli occhi quel che è successo e, anche a rischio di sembrare noiosi, risalire al 2007. Tutto era sossopra in quel fatidico anno. E le banche italiane non erano pronte. La foresta pietrificata si era sciolta nel decennio precedente grazie a Giuliano Amato che aveva privatizzato gli istituti di credito pubblici e ad Antonio Fazio, cultore di aggregazioni su base omogenea e territoriale. Ma il sistema restava debole, esposto a scorribande come quelle del 2005 da parte dei “furbetti del quartierino” (Danilo Coppola, Giuseppe Statuto, Stefano Ricucci), di banchieri ambiziosi come Giampiero Fiorani, di banche estere come l’olandese Abn Amro o la francese Bnp che si è presa la Bnl sfilandola alla Unipol, la quale aveva cercato di coinvolgere anche il Montepaschi.

La finanza rossa non è unita, Siena diffida di Bologna ed entrambe di Roma. Altro che difesa dell’italianità, bisogna difendere il campanile. Il tourbillon non è ancora finito quando Romano Prodi, tornato nel 2006 a Palazzo Chigi, pensa sia arrivato il momento di non giocare più in difesa. Al rientro da un viaggio a Madrid chiama il suo amico Giovanni Bazoli, presidente della Banca Intesa e leader nobile della finanza cattolico-lombarda, per metterlo in guardia: il Banco Santander di Emilio Botín (in odor di Opus Dei) punta dritto sul Sanpaolo di Torino. In men che non si dica scatta la risposta e Intesa si marita con il Sanpaolo. Per far da pendant nel risiko del potere, Capitalia si fonde in Unicredit. Girano decine di miliardi di qua e di là dalle Alpi. Resta tagliato fuori proprio il Montepaschi, che si lancia in cerca di una preda. Si dà il caso che il Santander, una volta acquisita la Abn Amro, si trovi in pancia l’Antonveneta e non sappia che farsene. Giuseppe Mussari non se la lascia scappare. Botín l’aveva pagata 6,5 miliardi di euro, Mussari ne sborsa 9,2. Chi mette i soldi? Quando quelli di Siena si recano finalmente a Padova, scoprono che la cassaforte dell’Antonveneta è stata prosciugata; contavano di usare la sua liquidità per far fronte all’acquisto, invece debbono sbrigarsi a trovare altri 8 miliardi. Così spunta il bond decennale scadenza 2018 (4 miliardi venduti al dettaglio a mille euro a pezzo), o si ricorre ai derivati Alexandria e Santorini per far sembrare che i requisiti di capitale vengano rispettati. Finanza creativa, pasticci, imbrogli persino, ma è nulla di fronte al grande sospetto, cioè che quei 2,7 miliardi siano stati spartiti tra i grandi protagonisti dell’affare con tangente defluita verso gli sponsor politici. Chi? Il Pd? Quale, quello di Siena, quello di Firenze o quello di Roma? Finora non se ne è trovata traccia. Hanno lasciato invece le impronte scritte gli ispettori di Via Nazionale.

Allora perché la Banca d’Italia non ha puntato i piedi? “Ci raccomandammo con i vertici di Mps di fare per bene l’acquisizione”, ha risposto Anna Maria Tarantola, allora capo della vigilanza. Già, senza nemmeno passare prima al setaccio i conti dell’Antonveneta. “Noi abbiamo sempre caldeggiato la due diligence preventiva”, ha spiegato Fabrizio Saccomanni, allora direttore generale. E’ prevalsa l’avidità, o l’ansia di prestazione, o l’ambizione senza sostanza di Mussari & C.? Ai posteri della commissione d’inchiesta l’ardua sentenza. Mentre Siena percorre la sua via dolorosa, a Vicenza il vignaiolo di successo Gianni Zonin, diventato presidente della Banca Popolare, non si ferma più. Acquista banche e banchette dalle Alpi alla Sicilia, mette a tacere i tradizionalisti che non vogliono perdere le radici locali, presta quattrini a clienti e amici, si circonda di soci dai nomi importanti, Giuseppe Stefanel, Renzo Rosso (Diesel), Andrea Meviorach, grande immobiliarista veneziano, Alfio Marchini, costruttore romano (che si sente in realtà truffato). Un altro sillabario di tutto rispetto. Azionisti eccellenti comprano i titoli e poi li rivendono al momento giusto (fiuto o soffiate, chissà). Gli ispettori della vigilanza scoprono che la pratica corrente era prestare i quattrini con i quali venivano acquistate le azioni facendo salire così il valore di Borsa. Ma Vicenza non è la sola a intrattenere un rapporto incestuoso tra azionisti e creditori. Al contrario, per molte popolari il marchio di fabbrica è proprio dare una mano ai soci, “tutto per il popolo niente attraverso il popolo”, nome omen. Quando il governo le costringe a trasformarsi in società per azioni, le magagne vengono alla luce con pesanti conseguenze sui bilanci e nei valori dei titoli.

Difficile sostenere che Etruria e le altre tre banchette andavano salvate con i soldi pubblici premiando chi aveva approfittato della loro gestione allegra se non clientelare. Eppure la panna mediatica non smette di montare avvolgendo in un batuffolo di bugie gli “ignari risparmiatori”, ingenui al punto da illudersi di sfuggire ai quattro cavalieri dell’apocalisse 2008 (mutui subprime, derivati, sfiducia e recessione). Tra settembre e ottobre di quell’anno anche il colosso Unicredit rischia di crollare. La Gran Bretagna, la Germania, il Belgio, la Francia corrono in soccorso alle loro banche con i soldi dei contribuenti. Sono aiuti di stato, ma si chiude un occhio. Le banche italiane non ne hanno bisogno, sostengono tutte le autorità, dalla Banca d’Italia guidata da Mario Draghi al Tesoro guidato da Giulio Tremonti. Non ne hanno bisogno nemmeno quando la Spagna nel dicembre 2012 chiede 41 miliardi al meccanismo europeo di stabilità (detto fondo salva stati). Già da tempo, invece, il Montepaschi s’era avvitato in una spirale senza fine. Nell’aprile 2012 cambiano i vertici, arriva alla presidenza Alessandro Profumo. Nel gennaio 2013 scattano le inchieste giudiziarie e si apre il vaso di Pandora. Mps è l’anello debole, ma scuote l’intera catena creditizia. Eppure i governi Monti, Letta e Renzi sono convinti di poter intervenire caso per caso, tamponando l’emorragia senese e sistemando le cose in famiglia con fusioni e acquisizioni pilotate. Intanto a Francoforte e a Bruxelles cambiano le regole del gioco: le banche possono fallire; pagano, nell’ordine, azionisti, obbligazionisti, clienti con depositi superiori a 100 mila euro.

I salvataggi di stato sono consentiti solo se è in pericolo l’intero sistema e anche in questo caso l’onere va ripartito tra contribuenti e risparmiatori. Una soluzione razionale sulla carta, ma non per la eccezione italiana che richiede flessibilità, dice Ignazio Visco governatore della Banca d’Italia. Eppure il governo non si oppone. Le banche nascondono cose oscure nei loro bilanci, per questo vengono salvate? Forse; lasciamo a procuratori e questurini di fare il loro mestiere. Certo è che sono piene di prestiti a grandi clienti strapazzati dalla crisi, o di operazioni di sistema tipo Alitalia. E sono zeppe di titoli di stato, che non sono più a rischio zero dopo l’attacco ai debiti sovrani nel ferale biennio 2010-2012. La recessione s’allunga, l’Italia non si riprende e il prodotto lordo perde nei sette anni di vacche magre dieci punti percentuali, la produzione industriale si riduce di un quarto, i crediti incagliati salgono alle stelle. Di questo si parlerà nelle aule parlamentari? Oppure i veri obiettivi sono altri, due in particolare: primo, la banca Etruria con la famiglia Boschi e i suoi intrecci; secondo, il fallito “salvataggio di mercato” e il ruolo di JP Morgan (insieme a Mediobanca). Entrambi conducono a un unico indirizzo, quello del Nazareno e di Matteo Renzi. A pensar male… Il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan intervenendo al Senato ha dato un colpo al cerchio giustizialista (“chi ha sbagliato paghi”) e uno alla botte garantista (niente liste di proscrizione per i debitori insolventi). Dopo aver trascorso più di un anno a riconcorrere le emergenze, dopo aver perduto il braccio di ferro con l’Unione europea sulla bad bank per i crediti marci, dopo essersi prestato alla dubbia operazione JP Morgan, ora si augura che sia arrivato “un punto di svolta positivo”.

Ma perché non ammettere che le banche italiane non sono troppo grandi per fallire, sono troppe e troppo piccole per resistere, dovranno attraversare una profonda, lunga e dolorosa transizione, cambiando talvolta mestiere; debbono diventare snelle, integrate nella rete informatica, specializzate. In Francia quattro grandi banche hanno in mano la maggior parte dei depositi, l’Italia è ancora frastagliata. Una o due aziende di credito entreranno in un grande gruppo internazionale. E non sono al sicuro nemmeno le maggiori: Unicredit, a prescindere se il matrimonio sarà francese con Société Générale oppure no, e Intesa Sanpaolo, che si sta impegnando in nuove operazioni sistemiche (come l’acquisto del Corriere della Sera finanziando Urbano Cairo), nella speranza che vadano a buon fine. E’ il mercato, bellezza, ma il governo non ha nulla da dire? I crediti marci saranno venduti e c’è una lista di operatori specializzati pronti a comperarli, è questione di prezzo influenzato dai tempi di recupero e anche su questo si sta litigando. Non manca il polverone e si levano alte le grida di chi si sente penalizzato, ma nello stesso tempo non ha modo di far fronte ai propri debiti e vuole che paghi Pantalone. Quando la nuvola grigia si sarà depositata, molte banche italiane anche di medie dimensioni, il cui valore di Borsa è precipitato, diventeranno appetibili. Tra Londra e Zurigo fondi e operatori finanziari hanno già messo a punto le loro liste. Segrete, naturalmente. E i banchieri fraudolenti? E gli industriali dai crediti allegri? E i consulenti dalle pingui parcelle? Aspettiamo le inchieste, quelle giudiziarie e, last but non least, quella parlamentare. La commissione stragi esiste ancora, basta chiamare il centralino per sentirsi rispondere: “Stragi dica?”. Adesso avremo “Crac dica?”. Un’altra inchiesta che non finirà mai di finire, ma produrrà senza dubbio nuove carriere.

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