(foto LaPresse)

Perché l'allarmismo sulla deflazione è fortemente esagerato

Sandro Brusco

La "spirale deflattiva" è una storiella che non sta in piedi né dal punto di vista teorico né dal punto di vista empirico

La notizia del calo, nel corso del 2016, dell’indice dei prezzi al consumo ha generato alcuni titoli un po’ allarmisti sulla deflazione e sui suoi potenziali danni. In realtà è ovvio che stiamo parlando di ben poca cosa. Una riduzione dello 0,1 per cento non è poi tanto diverso da un aumento dello 0,1 per cento. L’ossessione intorno allo stare leggermente sopra o leggermente sotto il valore simbolico di zero sembra essere abbastanza mal posta. Detto questo, quali sono gli effetti che ci possiamo attendere dalla deflazione o da una inflazione molto bassa? Prima di tutto, scordate le storielle sulla “spirale deflattiva” per cui il calo dei prezzi genera bassa domanda (la gente aspetta che i prezzi scendano per comprare) e quindi maggiore calo dei prezzi e quindi maggiore bassa domanda e così via. E’ una storiella che non sta in piedi né dal punto di vista teorico né dal punto di vista empirico. Il perché non stia in piedi è argomento che richiede maggiore spazio di un articolo di giornale, ma per capire almeno l’essenza dell’argomento provate a rispondere alla seguente domanda: se vi aspettaste un calo del 10 per cento dei prezzi in ciascuno degli anni futuri che vi restano da vivere, sul serio ritardereste all’infinito l’acquisto di una nuova macchina? Gli effetti dell’inflazione o deflazione si fanno invece sentire in modo più marcato sulle quantità il cui valore è, almeno temporaneamente, fissato in termini nominali.

Nell’Italia del 2017 ci sono tre aree in cui gli effetti sono potenzialmente importanti. Più precisamente, gli effetti sarebbero importanti se la deflazione fosse sostanziale, non lo 0,1 per cento. E’ bene però tenerli a mente. Primo, c’è un effetto sul valore reale del debito pubblico. Il debito emesso nel passato è quasi interamente non indicizzato, quindi deve essere rimborsato al valore nominale. Con la deflazione, tale valore aumenta in termini reali, ossia il rimborso del debito diventa più oneroso per i contribuenti (e più vantaggioso per i creditori). Questo effetto può essere importante solo quando la deflazione non è prevista, ossia è considerata una “sorpresa” da chi opera sui mercati finanziari, poiché altrimenti le aspettative di deflazione avrebbero ridotto i tassi nominali al momento dell’emissione. Data la dimensione del debito pubblico italiano questo effetto può essere rilevante, in caso la deflazione sia più sostanziale. Al momento è solo un effetto minore, anche perché la bassa crescita dei prezzi va avanti da un po’ ed è ormai incorporata nelle aspettative. Secondo, c’è un effetto sulle imposte sul reddito, che favorisce i contribuenti e sfavorisce lo stato. Se l’imposta sul reddito fosse puramente proporzionale, per esempio una flat tax al 30 per cento, allora il livello nominale dei prezzi e dei redditi sarebbe irrilevante: la fetta dello stato sarebbe sempre del 30 per cento. Con tassazione progressiva e scaglioni delle aliquote fissati in termini nominali invece, i livelli nominali dei redditi diventano importanti. Negli anni Ottanta, per esempio, i governi aumentarono in modo brutale le imposte dirette senza alcun atto legislativo ma semplicemente ritardando l’adeguamento degli scaglioni a fronte di un’elevata inflazione, un fenomeno che divenne noto come fiscal drag.

Con la deflazione succede l’esatto opposto: un reddito reale più alto ottenuto grazie alla riduzione dei prezzi non porta a pagare aliquote più alte. Se si arrivasse al punto in cui i redditi nominali si riducessero ma meno della riduzione dei prezzi, allora i contribuenti avrebbero un aumento del loro reddito reale (se i prezzi calano del 3 per cento e il reddito cala del 2 per cento allora il potere d’acquisto aumenta dell’uno per cento) e al tempo stesso una riduzione delle imposte. Siamo ovviamente ben lontani ancora da un simile scenario, ma perlomeno non dobbiamo più preoccuparci del nefasto fenomeno del fiscal drag. Terzo, alcune spese dello stato tendono a essere rigide in termini nominali e la deflazione fa aumentare il valore reale di queste spese. L’esempio quantitativamente più importante è quello della spesa per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche. I governi degli ultimi anni hanno ritardato il rinnovo dei contratti del pubblico impiego. In tal modo le retribuzioni nominali sono rimaste più o meno fisse e il valore delle retribuzioni reali è stato leggermente eroso dalla poca inflazione che si è verificata. Con la deflazione accade il contrario, una retribuzione nominale fissa genera una più alta retribuzione reale. In teoria il governo potrebbe reagire chiedendo una riduzione delle retribuzioni nominali nel settore pubblico, ma è chiaro che una simile mossa sarebbe un suicidio politico e non può quindi essere messa in atto.

Di nuovo, comunque, è bene ricordare che tutti questi effetti sono estremamente limitati, dato che l’attuale calo dei prezzi è dello 0,1 per cento. I rischi principali per l’Italia derivano non dalla deflazione per sé, ma da una differente dinamica dei prezzi rispetto ai nostri partner dell’area euro. Al momento l’inflazione nell’area euro è più alta di quella italiana. In sé ciò non è male, dato che aumenta la competitività di merci e servizi italiani. Tuttavia la Banca centrale europea può decidere di adottare una politica monetaria più rigida, portando a un aumento dei tassi d’interesse. Di nuovo, in sé questo non è necessariamente un male, ma per l’Italia del 2017 significherebbe un aumento della spesa per interessi. Dati gli esigui spazi di manovra presenti nel bilancio pubblico, questa sarebbe una cattiva notizia. 

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