(foto LaPresse)

Il super dollaro è un'esca per i cinesi

Ugo Bertone

Una guerra valutaria per difendere lo yuan che finirà per favorire Trump

La temuta corsa agli sportelli non c’è stata: i correntisti cinesi che hanno scelto il primo giorno dell’anno del Gallo per comprare i 50 mila dollari consentiti dalla legge per l’intero 2017, non hanno dovuto affrontare code chilometriche davanti ai grandi edifici del Bund di Shanghai o ai palazzoni di vetri di Pechino, previste da molti banchieri. La moral suasion delle Autorità, insomma, ha funzionato: i cittadini comuni sono stati scoraggiati dal fare il pieno di dollari prima di una possibile “stretta” – data per imminente dal tam tam via internet – che richiedeva una dichiarazione sui motivi di acquisto di valuta straniera, dollari in testa, e che minacciava non meglio precisati “controlli” contro gli abusi.

Così Pechino ha evitato la temuta emorragia di capitali, un malessere da paese fragile che mal si concilia con la seconda potenza economica del pianeta, ma che è la punta dell’iceberg di un malessere più politico e psicologico che economico. Non esiste altra spiegazione per le pressioni che giovedì scorso in Cina hanno subìto le redazioni economiche di giornali e siti web perché non venisse ripresa la notizia che, per non più di mezz’ora, il rapporto i cambio aveva varcato la soglia di 7 yuan per un dollaro, come non capitava dal 1994. La barriera ha tenuto. Per ora. Perché solo una manciata di centesimi separa l’ultimo fixing, ovvero 6,9498, dalla temuta vetta. Curiosa preoccupazione per la potenza cinese che, fin dall’insediamento del presidente Xi Jinping, persegue l’obiettivo di promuovere lo yuan tra grandi monete globali. Ma dietro le monete si aggirano nuovi fantasmi che sanno usare le nuove tecnologie meglio degli hacker.

La fuga di capitali assume forme nuove: i depositi online, difficili da monitorare in un paese dove si sono moltiplicate le forme di prestito (e di debito) che viaggiano via smartphone. Per non dimenticare l’indiziato numero uno: il Bitcoin, assai usato nel paese del Dragone dove circola l’80 per cento delle monete virtuali del pianeta. Non è certo per caso che ieri il Bitcoin abbia preso il volo: ci sono voluti più di 1.000 dollari, 1.022 per l’esattezza, sotto la spinta degli acquisti. Anonimi, s’intende, come si usa nel mondo impenetrabile dei seguaci di Satoshi Nakamoto, presunto inventore della criptovaluta. Anche così si misura lo smarrimento della superpotenza cinese alle prese con una realtà nuova, in parte prevista, dopo la decisione di accelerare il passaggio da economia industriale ai servizi. In parte troppo imprevedibile per i suoi governanti, cresciuti a suon di piani quinquennali e che nulla detestano di più della prospettiva di avvicinarsi al Congresso del Partito a fine anno nell’incertezza. Al contrario, è una sorpresa la rapidità della discesa delle riserve ufficiali accumulate in decenni di export dalla fabbrica del mondo: poco più di 3 mila miliardi di dollari, in calo di un quarto dal 2014, da quando cioè Pechino è scesa in campo per sostenere la moneta contro il dollaro. Proprio quel che chiede (ironia della sorte) il più implacabile nemico della Cina, lo staff del presidente Donald Trump. Ancora più significative sono le vendite di titoli del Tesoro americano. A ottobre nel portafoglio di Pechino risultavano “solo” 1.120 miliardi in T-bond, in calo per il sesto mese di fila al ritmo di 40-45 miliardi in meno al mese.

Una frana che ha provocato il sorpasso del Giappone, che è diventato il secondo creditore di Washington. Di questo passo la Cina, il cui debito allargato (stato centrale, periferia, più imprese pubbliche e private) ammonta al 250 per cento del pil, rischia una grave crisi finanziaria. Crisi favorita pure dall’euforia con cui le imprese, pubbliche e private, hanno approfittato dell’apertura agli investimenti internazionali voluta dalla Banca centrale e dal premier Li Keqiang, oggi criticata proprio per gli effetti di una politica troppo rapida rispetto ai tempi della burocrazia cinese. Nel corso del 2016 le imprese cinesi hanno comprato un po’ di tutto, con una logica bizzarra, dalle compagnie minerarie alle squadre di calcio. Risultato? Negli ultimi dodici mesi gli investimenti diretti all’estero sono cresciuti del 55 per cento. Intanto l’industria, stimolata dallo yuan debole, sta risollevando la testa: una contraddizione, vista la volontà cinese di difendere il cambio e le accuse di Trump. 

Di più su questi argomenti: