Flash Mob contro il ministro Poletti (foto LaPresse)

Perché il problema dei voucher è ampiamente sopravvalutato

Lorenzo Borga

Sono un fenomeno in crescita, introdotto e potenziato da governi di centro-destra e centro-sinistra, che si presta ad alcuni abusi, ma che non rappresenta la maggiore preoccupazione per il mercato del lavoro. Un fact checking

Buoni lavoro, voucher, lavoro accessorio. Come vogliamo chiamarlo, è il tema politico del momento. Non potrebbe essere altrimenti: simbolo della precarietà tipica del mercato del lavoro italiano, secondo i critici emblema del fallimento del Jobs Act su cui pende una richiesta di referendum abrogativo. In rete c’è chi arriva ad accomunarlo alla schiavitù legalizzata (come il leader di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni), soprattutto da parte di quel mondo di sinistra che ancora vede la Cgil come perno centrale. Non a caso negli ultimi giorni si sta discutendo insistentemente di modifiche per limitarne l’uso, come riportato da Il Foglio.

Nell’era della post-verità un importante ruolo dei media è distinguere fra realtà e narrazione, anche sui voucher. Ecco quindi una breve guida sui buoni lavoro basata su dati e ricerche dell’Inps, per potersi orientare fra lo storytelling, a favore e contro.

 

 

VOUCHER, COSA SONO?

Essenziale prima di tutto spiegare di cosa si tratta: il sito dell’INPS ne scrive come “una particolare modalità di prestazione lavorativa la cui finalità è quella di regolamentare quelle prestazioni lavorative” accessorie “che non sono riconducibili a contratti di lavoro in quanto svolte in modo saltuario, e tutelare situazioni non regolamentate”. La retribuzione avviene attraverso voucher dal valore lordo di 10 euro, di cui 7,50 euro destinati al compenso minino per un’ora di lavoro e 2,50 per assicurazione Inail e contributi pensionistici. Non sono invece previste le garanzie di disoccupazione, maternità, malattia ed assegni familiari. I buoni lavoro possono essere acquistati online, oppure negli uffici postali, in tabaccai ed edicole e presso alcune banche. Il loro utilizzo è stato via via liberalizzato e oggi è esteso a quasi tutte le categorie di lavoratori e committenti, con il solo vincolo per il compenso del lavoratore di 7.000 euro netti all’anno.

 

CHI LI HA INTRODOTTI

Oggi tutti se ne dissociano, ma i voucher sono stati approvati e introdotti per legge dal Parlamento. Il lavoro accessorio, nonostante sia una modalità relativamente giovane, ha già subito una lunga serie di modifiche alla propria regolamentazione. Tutto ha inizio nel 2003 con il governo Berlusconi II, quando vengono introdotti dalla cosiddetta Legge Biagi (decreto legislativo 276/2003) per attività di natura esclusivamente occasionale. La novità rimane tuttavia inapplicata fino al 2008 quando il governo Prodi II, a fine mandato, dà attuazione alla legge e prevede un limite economico di 5.000 euro per lavoratore nei confronti di ogni singolo committente; i lavoratori possono essere solo studenti e pensionati e l’unico settore lavorativo ammesso è l’attività occasione nelle vendemmie di breve durata. Solo pochi mesi più tardi, con il nuovo governo Berlusconi appena entrato in carica, la normativa viene nuovamente modificata ampliando alla generalità dei lavoratori la possibilità di essere pagati tramite voucher per attività agricole. Man mano, tramite la legge 33/3009, i voucher sono stati estesi anche ad altri settori economici – primi fra tutti il commercio, il turismo ed i servizi, in particolare i lavori domestici - e inclusi i part-time tra i possibili prestatori di lavoro accessorio. Nel 2010 il lavoro occasionale viene completamente liberalizzato ed aperto a qualsiasi soggetto: disoccupati, inoccupati, autonomi, dipendenti part-time e a tempo pieno. Con l’avvento del governo Monti la normativa viene nuovamente modificata tramite la cosiddetta Legge Fornero che apre il pagamento tramite voucher a tutti i settori lavorativi e ad ogni categoria di lavoratori, mentre restringe il limite economico a 5.000 euro per l’intera pluralità dei committenti. Infine durante l’attuale legislatura – prima dal governo Letta e poi con il Jobs Act – viene progressivamente eliminata la dicitura “di natura meramente occasionale” rispetto all’attività retribuita con buoni lavoro. Dal governo Renzi viene inoltre resa obbligatoria l’attivazione telematica preventiva, innalzato il limite economico netto da 5.000 a 7.000 euro per lavoratore e – il 24 settembre 2016 – introdotto l’invio di un sms almeno 60 minuti prima dell’inizio della prestazione per ottenere una tracciabilità completa. Le responsabilità politiche sono quindi molteplici: perfino fra gli odierni critici vi è chi approvò le ripetute liberalizzazioni, fra tutti Pierluigi Bersani e Stefano Fassina, il primo favorevole alla Legge Fornero nel 2012, il secondo viceministro dell’Economia nel governo Letta e responsabile economico del Partito Democratico dal 2009 al 2013.

 

BOOM?

Il dato più conosciuto riguardo ai voucher è quello relativo alla loro crescita esponenziale: dai 15 milioni nel 2011 ai più di 115 milioni nel 2015 (i dati del 2016 non sono ancora disponibili, ma è probabile una frenata), con un tasso di crescita medio del 64 per cento all’anno. Un aumento considerevole ma dopo tutto “tipico di fenomeni allo stato nascente” come scrivono Bruno Anastasia, Saverio Bombelli e Stefania Maschio – ricercatori Inps e di Veneto Lavoro –  in uno dei più completi documenti di ricerca sull’argomento: “Il lavoro accessorio dal 2008 al 2015, profili dei lavoratori e dei committenti”. Anzi, se le percentuali di crescita sono impressionanti, i valori assoluti non sono così considerevoli: meno del 10 per cento dei dipendenti ha percepito buoni lavoro nel corso del 2015, rappresentando un misero 0,23 per cento rispetto al costo totale del lavoro dipendente privato. Sempre secondo dati Inps le ore retribuite tramite voucher non superano lo 0,35 per cento del totale di ore lavorate in Italia. Numeri dallo zero virgola rispetto al mercato del lavoro italiano. La media di buoni per lavoratore è invece di 66 buoni a testa, un dato stabile dal 2012 ad oggi: negli ultimi anni è quindi cresciuta la platea di lavoratori coinvolti ma non il ricorso medio ai voucher per i singoli percettori. La semplice lettura dei dati ci mostra quindi un fenomeno in enorme crescita, ma comunque di entità modesta, almeno per ora.

 

IL POPOLO DEI VOUCHER

Ma chi sono i lavoratori pagati tramite buoni lavoro? Il popolo dei voucher esiste davvero? Dalla lettura dei dati è possibile delineare un identikit dei prestatori di lavoro accessorio. La ricerca Inps mostra che i percettori di buoni lavoro sono per metà lavoratori attivi e fra questi la gran parte sono dipendenti part-time o stagionali; il restante si divide fra coloro per cui i voucher rappresentano l’unica fonte di reddito e i pensionati. I ricercatori affermano che “si evidenzia una netta associazione tra lavoro accessorio e carriere lavorative discontinue o a orario ridotto”. Inoltre più di un terzo dei lavoratori con voucher intrattengono rapporti con la stessa azienda tramite contratti a tempo determinato: proprio per questa fetta la preoccupazione è maggiore per via del rischio di una modifica al ribasso delle condizioni contrattuali, da lavoro subordinato a lavoro accessorio. In realtà i dati ci rassicurano, poiché solo per il 6 per cento dell’1/3 dei lavoratori presi in considerazione ciò accade, mentre molto più frequenti sono i buoni lavoro a funzione “introduttiva” che vengono trasformati dopo qualche mese in contratti a tempo determinato. La preoccupazione rispetto all’età media in costante discesa è invece ben riposta: i giovani sotto i 30 anni assorbono quasi la metà dei voucher acquistati e anche la quota dei trentenni e dei quarantenni è in crescita.

 

CHI LI COMPRA?

Se i lavoratori sono stati analizzati, fondamentale è comprendere quali siano le 815.979 aziende, professionisti e famiglie che dal 2008 al 2015 (472.747 nell’ultimo anno) hanno utilizzato il lavoro accessorio. Il numero medio per committente di lavoratori utilizzati nel 2015 è 3,7, per una media di 186 voucher utilizzati da ogni committente. Quasi il 65 per cento di questi utilizza i buoni lavoro in modo marginale, retribuendo fino a 5 lavoratori con al massimo 70 voucher a testa, mentre meno del 15 per cento dei committenti utilizza più di 300 voucher per lavoratore. Il committente tipo non è certo la famiglia, bensì piccole aziende con o senza dipendenti, in primis del comparto alberghiero-ristorazione le quali necessitano di un’ampia flessibilità che segua gli imprevisti delle stagioni turistiche e del meteo. Molto meno numerose invece le grandi aziende che utilizzano voucher, esse rappresentano una quota residuale.

 

PUNTA DELL’ICEBERG

Infine uno dei temi più dibattuti: l’eventuale effetto emersione del lavoro nero, obiettivo dichiarato al momento dell’introduzione. I ricercatori Inps la definiscono niente meno che un’ “irrealistica aspettativa” e spiegano che invece di emersione siamo di fronte a una “regolarizzazione minuscola in grado di occultare la parte più consistente di attività in nero”. Nella pratica, numerosi committenti acquisterebbero voucher per poter coprire lavoratori in nero presenti sul posto di lavoro al momento di un possibile controllo a sorpresa. Per scongiurare il rischio a settembre 2016 è stato emanato un nuovo decreto legislativo a correzione del Jobs Act, come spiegato sull’Unità dal professore Filippo Taddei. Staremo a vedere se, questa volta, gli effetti saranno quelli sperati.

 

ABOLIRLI?

I numeri lo dimostrano: i voucher sono un fenomeno in crescita, introdotto e potenziato da governi di centro-destra e centro-sinistra, che si presta ad alcuni pericolosi abusi, ma che non rappresenta certo la maggiore preoccupazione per il mercato del lavoro italiano, né la maggiore forma di precarizzazione. E riguardo ad una possibile abolizione, come proposto dalla Cgil? La ricerca dell’INPS lo spiega meglio di chiunque altro: “Anche i voucher possono essere aboliti. Ma ciò che non può essere abolito è il problema sottostante: come si pagano le attività di breve durata”.

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