Il partito dei compiti a casa

La “restaurazione” apre la porta alla Troika, che può passare da Mps

Alberto Brambilla

L’assalto popolar-giudiziario alle riforme renziane più apprezzate all’estero è un invito a nozze per gli euro-kommissari

Roma. Servirà un intervento esterno nel vacuum politico post renziano per evitare la paralisi del sistema economico? L’Italia da sempre si racconta una storia: riuscire a dare il massimo nei momenti duri, come oggi. Tuttavia, oggi, sembra capace di perseguire riforme strutturali solo a un ritmo apatico e in questa fase post referendaria anziché dare un colpo di reni rischia di procedere sempre di più a passo di gambero. Le principali riforme economiche prodotte in un biennio dal governo di Matteo Renzi, scalzato dal revanscismo popolare al referendum costituzionale, sono infatti potenzialmente a rischio. E tutto potrebbe tornare al punto di partenza. La riforma del lavoro, il Jobs Act, ha superato i vincoli dell’art. 18, una reliquia del secolo passato che rendeva impossibile per le imprese con più di 15 dipendenti liberarsi di lavoratori a tempo indeterminato, e dava incentivi alle nuove assunzioni, delineando il passaggio da un modello di mercato mediterraneo a uno nord-europeo.

 

La Cgil promuove un referendum (la cui legittimità è da valutare) per cancellarla con danno potenziale per migliaia di aziende. Il Consiglio di stato ha chiesto parere alla Corte costituzionale sulla legittimità della riforma delle banche popolari, invocata da trent’anni e tesa ad aprire l’azionariato al mercato per agevolare aggregazioni, perché varata con un decreto legge con requisito d’urgenza – un errore tattico dell’esecutivo renziano rivelatosi esiziale. I processi di trasformazione degli istituti sono ora in stand-by. I rapporti e le esternazioni dei consessi noti come “Troika” – Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea, Commissione europea – avevano elogiato i “passi avanti”, in parte da essi stessi suggeriti ma per molte ragioni necessari per la crescita del paese.

 

Cosa diranno ora gli osservatori stranieri e le cancellerie europee nel vedere la “restaurazione” in fieri mentre l’Italia che ha fatto sistematicamente fuori ogni classe dirigente capace di decidere negli ultimi trent’anni non ha riserve disponibili? Possono cominciare a constatare che le cattive abitudini non muoiono mai. La dismissione della riforma delle popolari sarebbe la riprova che la certezza del diritto è continuamente calpestata, com’è stato fatto notare a più riprese dall’ambasciata americana a Roma. Per non parlare della necessità di ridurre il numero di istituti bancari, sottolineato (irritualmente per un membro della Banca centrale europea) da Peter Praet, capo economista dell’Eurotower di nazionalità tedesca. La prassi di recuperare competitività – non con le proprie forze, ma con stratagemmi di diversa natura – sarebbe un altro punto di critica. Prima del 1999 l’Italia rispondeva a problemi di competitività svalutando sistematicamente la lira.

 

Con l’ingresso nell’euro, svalutare attraverso l’ancoraggio dei salari reali alla produttività è l’unica opzione possibile. Il sistema di cambi fissi non consente manipolazioni e ora l’Italia soffre di una fuga di capitali da record. Quello che l’Italia può fare quando le riserve ufficiali fuoriescono è prendere liquidità in prestito per restare vincolata al sistema dei pagamenti interbancario dell’euro (Target 2) gravando sui paesi partner. Intervistato dal Corriere della Sera, Clemens Fuest, presidente dell’Istituto Ifo di Monaco, da posizioni europeiste, ha constatato che in ottobre il saldo negativo dell’Italia in Target 2 era salito a 355 miliardi di euro, oltre il 20 per cento del pil. Una situazione di stress finanziario tale per cui “se poi risulta che l’euro è un ostacolo alla crescita in Italia, sembra preferibile che il paese lasci l’euro. E’ una decisione che deve prendere il governo”, avverte Fuest.

 

La teoria dell’euro-domino con l’uscita dell’Italia pare allarmistica, per ora. Ma per salvare il periclitante sistema bancario – Mps in testa – Roma ha bisogno di almeno 15 miliardi di euro che potrebbero arrivare solo dai fondi europei attraverso l’Esm, come suggerì all’indomani del referendum Volker Wieland, uno dei cinque consiglieri economici del governo Merkel. Com’è stato per la Spagna nel 2012, l’arrivo dei soccorsi implica condizionalità stringenti per aggiustare le banche e i conti pubblici con la visita dei “kommissari”. Dato il clima di restaurazione arriverebbero anche soltanto per tutelare i “piccoli passi” finora compiuti. E’ un’ipotesi al momento remota, ma quando la politica si ferma il rischio che ci sia qualcuno che torni a dettare i compiti a casa esiste ed è bene non ignorarlo. 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.