Lorenzo Bini Smaghi (foto LaPresse)

L'italianità ci ha sbancati, dice Bini Smaghi

Alberto Brambilla

“La francofobia è un’ossessione”. Intervista al presidente di Société Générale e Italgas

Roma. “Siamo un po’ troppo ossessionati dai francesi. Ci sarebbe forse da interrogarsi se la cosiddetta conquista di cui si parla non sia piuttosto il risultato del fallimento di un modello capitalistico italiano, che ha pensato assai poco di crescere all’estero ma soprattutto a difendersi e, a forza di difendersi, è rimasto sottodimensionato, fragile e vulnerabile. Abbiamo giocato in piccolo, ora abbiamo bisogno di capitale nuovo”. Lo dice al Foglio Lorenzo Bini Smaghi, presidente della terza banca francese per asset Société Générale (SocGen), di Italgas ed ex membro italiano del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, per inquadrare la genesi di quello che i media considerano l’assalto finale della finanza d’oltralpe, visto che il miliardario francese Vincent Bolloré ha appena costruito, a prezzi abbordabili, una posizione forte (20 per cento) nell’azionariato di Mediaset, prima emittente nazionale creata e controllata dalla famiglia dell’ex premier Silvio Berlusconi. Mediaset dice di volere difendersi. Il governo italiano giudica l’operazione “inopportuna” e dice che vigilerà sul caso. Alcuni esponenti politici parlano di un “patrimonio italiano da salvaguardare”.

 

 

“Il concetto di ‘protezione’ da grandi società che sono quotate sulla Borsa di Parigi e che fanno gran parte del loro fatturato all’estero – dice Bini Smaghi – è assurdo e anacronistico: loro crescono, mentre qui al contrario si è protetto troppo e il risultato è che ora il sistema capitalistico italiano rischia di implodere ed essere facile preda di pesci più grandi”. Questione di dimensioni. Sembra dire che anche per Mediaset è naturale entrare nell’orbita di Vivendi (che in Borsa capitalizza quasi quattro volte di più: 23,42 miliardi di euro contro 4,21), al pari del Milan che cerca danarosi investitori cinesi per restare tra i big del calcio. Quale esempio ha in mente? “Il mercato delle telecomunicazioni su un mercato limitato ovviamente ti indebolisce, ma nulla da dire su Berlusconi. Ho in mente Alitalia prima di Etihad. Gli azionisti di riferimento hanno avuto paura di perdere il controllo, hanno scelto manager che non avevano ambizioni globali, mentre altrove si scelgono manager internazionali capaci di fare crescere il valore per i soci”.

 

Però Air France era nel cda di Alitalia dal 2001 e poi ha guadagnato importanza. “Se Alitalia avesse fatto un’alleanza seria forse sarebbe andata per prima con Klm. Erano i ‘capitani coraggiosi’ a voler difendere ‘l’italianità’ a tutti i costi e hanno fatto dell’alleanza francese un punto di debolezza. Alla fine s’è accettato un investitore estero in fase d’emergenza”. Lo stesso, si può dire, vale per il Monte dei Paschi che per la disperata ricapitalizzazione di questi mesi s’affida al fondo sovrano del Qatar, una monarchia sunnita. Anche in questo caso per lei il passaporto non ha importanza? “Non conta il passaporto ma il progetto industriale. Per Mps sarebbe forse stato meglio stringere un’alleanza strategica con un altro gruppo anni fa e creare un istituto di stazza globale al servizio dell’economia reale italiana piuttosto che essere, come è ora, alla mercé di fondi che non hanno un disegno industriale ma mirano a un guadagno di breve termine rivendendo le azioni acquistate”. Come per Alitalia non fu permesso, a posteriori con danno per la Fondazione Mps e Siena.

 

“E’ chiaro che se una grossa fetta della classe dirigente e manageriale – e lo dico parlando di un problema più generale – è scelta dalla politica perché il ruolo dello stato, in questo senso, in Italia è ancora importante, la tendenza è scegliere persone che stanno sulla difensiva, che badano solo al mercato domestico, con una visione limitata del business, che cercheranno di tutelare una certa rendita di posizione – di questo passo l’ovvia conseguenza è che si rischia di diventare preda senza essere né predatore né tanto meno coalizzatore o catalizzatore di allenze”.

 

Ma un paese che cresce dell’1 per cento, con consumi depressi, è interessante all’estero? “Se qualcuno si interessa siamo fortunati se riusciamo a essere parte di un gruppo che ha potere di investire sul mercato globale, penso a Ducati e Lamborghini comprate dalla tedesca Audi”. Tornando alle banche, si parla di salvataggio pubblico per Mps, è appropriato? “Se avessimo fatto come il Regno Unito con Rbs e LLoyds nel 2012 forse avremmo recuperato soldi, i Monti bond sono stati penalizzanti”. A proposito di “invasione francese” molti media hanno rilanciato la possibilità di un ingresso di Société Generale in Unicredit in occasione del prossimo aumento di capitale monstre da 13 miliardi in cui i soci italiani, le fondazioni, si diluiranno. E’ vero? “Di queste speculazioni non intendo assolutamente parlare. Dico solo che per aiutare le aziende italiane ad andare in Africa, Asia, America servono banche che hanno una dimensione internazionale o che fanno parte di gruppi o alleanze internazionali”. 

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.