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Il ritorno al futuro del “nuovo” contratto dei metalmeccanici

Alberto Brambilla

Ora il “contrattone” non è più un totem politico-ideologico ma uno strumento per i lavoratori. Landini è stato “normalizzato”

Roma. Nella storia delle relazioni industriali italiane i punti di svolta non sono frequenti. Per questo quando arrivano paiono promettenti. Nel 1962 la Intersind, l’associazione sindacale delle aziende a partecipazione statale, riconosceva per la prima volta alla controparte sindacale dei metallurgici il diritto alla contrattazione aziendale costringendo Confindustria, l’associazione delle imprese private, ad adeguarsi. La svolta di questi giorni è arrivata con la firma del contratto nazionale dei metalmeccanici. Dopo qualche ritrosia tattica, l’associazione delle imprese metalmeccaniche di Confindustria, Federmeccanica, ha firmato il rinnovo contrattuale con Fim-Cisl, Uilm-Uil e Fiom-Cgil – tutte e tre insieme come non accadeva da otto anni. Al di là degli aspetti tecnici, il carattere innovativo del contratto dei metalmeccanici, firmato il 26 novembre dopo tredici mesi di trattative, sta nell’avere depotenziato la componente ideologica delle relazioni industriali che dagli anni Settanta in poi sono state caratterizzate da un elevato livello di conflittualità sia tra sigle sindacali sia tra i sindacati dei lavoratori e quello dei produttori secondo la logica “operai vs padroni”. Retorica, questa, cara al segretario della Fiom Maurizio Landini il quale ha firmato e s’è dimostrato realista durante le trattative dicendo che “ogni contratto va adeguato al contesto”; come dire che non è più ammissibile né invocare scioperi se viene minacciata la pausa caffé né costruire campagne mediatiche di character assassination verso manager lungimiranti come Sergio Marchionne di Fiat.

La conversione di Landini è spinta dal duro contesto economico che non permette di traccheggiare – 300 mila posti di lavoro persi causa crisi nel settore metalmeccanico – e dalla normalizzazione, umanamente comprensibile, di chi vuol fare il segretario generale della casa madre Cgil. Per la prima volta il contratto nazionale dei metalmeccanici emerge come uno strumento che rientra nella fisiologia di un sistema economico moderno al quale non viene più conferita a sproposito un’enfasi politico-ideologica. Il contratto firmato dai rappresentanti di oltre 1,6 milioni di metalmeccanici, i quali dovranno votarlo entro fine anno, definisce solo gli aspetti che non possono essere decisi a livello aziendale come lo standard minimo retributivo, la previdenza e l’assistenza sanitaria integrativa – una cornice valida per il settore. Non era più pensabile vincolare tutte le imprese alle stesse regole in un sistema di industriale polarizzato tra realtà dinamiche e realtà deboli, con esigenze opposte. E inoltre, come afferma il senatore del pd Pietro Ichino nella sua newsletter, il contratto “risponde positivamente agli incentivi governativi per la contrattazione a livello di impresa” dal welfare aziendale ai premi di produttività o redditività.

Il principio è che la dinamica salariale non è determinata in modo assoluto dal contratto mentre le componenti extra-salario rispondono al principio per cui “la ricchezza prodotta è redistribuita in azienda” con benefit con buoni carburante, per spese scolastiche, per beni e servizi pagati dall’impresa e “netti” per i lavoratori. Oppure come salario non immediatamente monetizzabile con l’introduzione del diritto soggettivo alla formazione, con corsi d’aggiornamento dentro o fuori l’azienda, grazie al quale il lavoratore potrà irrobustire le sue competenze. Un rinnovamento è anche quello che riguarda l’inquadramento professionale che era fermo dal 1973, ancora oggi in cui tanto si parla di Industry 4.0. Nella nuova fabbrica la formazione e l’inquadramento potranno arrivare a procedere di pari passo secondo criteri meritocratici. Altra novità organizzativa è l’introduzione di comitati consultivi di partecipazione: formati da rappresentanti sindacali devono essere convocati in aziende di medie dimensioni quando vengono prese scelte rilevanti. Così i lavoratori non sapranno dai media che la loro impresa sposta i macchinari all’estero o che è cambiato il proprietario, ma avranno modo di suggerire delle contromisure. 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.