(foto LaPresse)

Nessuna apocalisse in Borsa con Trump presidente

Alberto Brambilla
I mercati globali si fidano dei toni presidenziali del maverick repubblicano. Nessuna tragedia.

Roma. All’indomani della spettacolare vittoria sulla democratica Hillary Clinton, i commenti concilianti del presidente eletto Donald Trump, un tycoon repubblicano con programma anti fisco (ma con accenni keynesiani) e protezionista, hanno aiutato il dollaro e i mercati globali a contenere le perdite accusate a inizio contrattazioni per poi chiudere la seduta in recupero. “Sicuramente Trump è sembrato più ‘presidenziale’ nei toni rispetto al periodo della campagna elettorale”, dice Kathleen Brooks analista del broker City Index. “Si potrebbe dire che questo outsider abbia pronunciato un discorso in stile da establishment con effetto calmante per i mercati stressati”. Alla vigilia elettorale i profeti di sventura, galvanizzati da sondaggi ancora una volta sbagliati, avvertivano del rischio di tracolli borsistici thriller – con ribassi nell’ordine del 10-15 per cento sui listini europei e asiatici – ma sono stati presto smentiti.

 

Le prime reazioni immediate alla vittoria del “maverick” newyorchese in effetti sono state negative – il dollaro ha perso valore contro le principali valute, i mercati azionari nelle economie mature ed emergenti sono crollati, i beni rifugio come oro, titoli sovrani, yen si sono apprezzati – ma i movimenti ribassisti hanno avuto vita breve e sono stati più contenuti del previsto. Le borse europee hanno chiuso la seduta con valori più alti di quando era cominciata: Milano (apre a meno 2,4 e chiude a meno 0,1), Parigi (più 1,5), Francoforte (più 1,56), Londra (più 1). Il Nikkei è stato investito dallo choc (meno 5,3) senza possibilità di digerire l’evento. L’indice russo ha chiuso in rialzo del 2,2 per cento nella prospettiva di relazioni morbide tra Trump e Vladimir Putin. Wall Street, dopo gravi segnali ribassisti a spogli in corso, ieri si muoveva già in rialzo durante le contrattazioni a metà giornata.

 

Secondo la società di ricerche Capital Economics, le ragioni di turbolenze contenute sui mercati sono da ricercare in almeno cinque fattori che uniscono il carisma di Trump, le ricette da lui promesse per guidare la prima economia mondiale e il fatto che gode della garanzia di un Congresso del suo stesso partito – circostanza che favorì il predecessore democratico Barack Obama alla sua prima vittoria nel 2008 (perse il Senato al mid-term) – e incline a moderarne gli eccessi. Il primo fattore, immediato e già detto, è il suo discorso pacato dopo l’elezione. Secondo: dopo la Brexit inglese, i mercati sono più preparati a un risultato inatteso come la vittoria del repubblicano. Terzo: nel primo anno di mandato l’Amministrazione Trump intende spingere la crescita economica con la leva della politica fiscale, facendo passare tagli delle tasse per le imprese e aumentando la spesa in infrastrutture. Quarto: le preoccupazioni di una guerra commerciale sono probabilmente ridotte dal fatto che il sentimento generale dell’establishment è comunque avverso ad accordi commerciali transnazionali, quindi già propenso a una ritirata della globalizzazione (uno dei punti qualificanti della campagna di Trump), se si osserva per esempio la ritrosia europea all’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. Quinto: le difficoltà che Trump incontrerà nel fare digerire al Congresso tariffe commerciali più alte verso la Cina o verso il Messico, le cui politiche di dumping di beni fisici e manodopera sono per il neo presidente alla radice del depauperamento  della classe media.

 

Trump avrebbe il potere di manovrare con radicalità le leve del commercio e soddisfare la promessa di rompere accordi economici regionali (il Nafta, l’accordo di libero scambio con Messico e Canada) senza curarsi del Congresso. Nixon nel 1971 impose il congelamento di prezzi e salari per tre mesi con un ordine esecutivo, dopo avere sospeso la convertibilità del dollaro in oro decisa trent’anni prima alla conferenza di  Bretton Woods. Trump potrebbe preferire la cautela inizialmente o, come suggeriscono diversi osservatori e banche d’affari, i pesi e contrappesi politici – inclusa l’opposizione di alcuni repubblicani conservatori – potrebbero scongiurare scelte radicali e traumatiche. Come il democratico Jimmy Carter, eletto nel 1976, Trump è una figura antiestablishment con zero esperienza nella gestione della legislatura e potrebbe incontrare difficoltà a imporre la sua agenda. Dopodiché alcune intenzioni di Trump sono “mercato-repellenti”, a cominciare dalla possibilità di costringere il presidente della Federal reserve Janet Yellen, di nomina democratica, a lasciare la Banca centrale più potente al mondo prima di fine mandato nel 2018 o a interferire con la sua indipendenza durante l’accelerazione dell’exit strategy dall’espansione monetaria con l’annunciato rialzo dei tassi. Il colpo peggiore, per ora, si vede sul peso messicano, una proxy per gli investitori per misurare gli effetti delle intemerate di Trump. La moneta messicana è crollata ieri dell’8,2 per cento a 45 centesimi di dollaro perché la prospettiva di sollevare un muro lungo il confine meridionale americano – un punto chiave della campagna antimmigrati trumpiana – ora è sulla carta più vicina. “Se Trump lo farà, l’economia messicana ne soffrirà molto”, dice Jane Foley, senior foreign exchange strategist a Rabobank International. 

 

Rischi per Fiat in Messico, dice Mediobanca

 

E non solo quella messicana, anche quella italiana rischia di subire contraccolpi. Secondo Mediobanca Securities, tariffe più alte alle importazioni dal Messico agli Stati Uniti peserebbero sulla filiera automobilistica della galassia Fca (Fiat-Chrysler, Cnh, Ferrari) che ha impianti oltre confine o usa il paese come porta d’ingresso in Nordamerica. Fca ha due impianti a Toluca dove produce Fiat 500 e Suv Freemont. Mediobanca ritiene che il 10-15 per cento di quello che Fca vende negli Stati Uniti arrivi dal Messico. Il ceo del gruppo, Sergio Marchionne, disse che l’ipotesi di una revisione degli accordi tra Stati Uniti con Messico e Canada costringerebbe la società salvata dall’Amministrazione Obama a “un riallineamento delle attività produttive” nordamericane. 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.