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L'Italia “approfitti” della Brexit per fare rete tra gli italiani nel mondo

L’impressione che ci ha lasciato la riunione dei capi di governo europei della scorsa settimana è che Brexit non sarà un processo chiaro e lineare. Si va verso la cosidetta Dirty Brexit, in cui le sorti di persone e imprese su entrambe le sponde della Manica sono lasciate alla mercé degli interessi elettorali dei partiti.

Londra. L’impressione che ci ha lasciato la riunione dei capi di governo europei della scorsa settimana è che Brexit non sarà un processo chiaro e lineare. Si va verso la cosidetta Dirty Brexit, in cui le sorti di persone e imprese su entrambe le sponde della Manica sono lasciate alla mercé degli interessi elettorali dei partiti, della brutalità dei mercati e del caso. In questa situazione di incertezza e rischi incalcolabili quale sarà la fine dei 600.000 italiani che vivono e lavorano in Gran Bretagna? Chi si prenderà cura di difendere i loro diritti e interessi? Non si può far fede sul governo britannico, che fin dall’inizio ha dimostrato di voler utilizzare i cittadini europei come merce di scambio nei negoziati. Tanto meno farei affidamento sull’Unione europea, rimasta silenziosa durante la campagna referendaria e che ora è più attenta a tutelare i princìpi dell’Unione che i diritti dei cittadini.
In questa situazione non vedo altra possibilità che rivolgermi al governo del mio paese, anche perché questa potrebbe rappresentare un’opportunità unica in un momento di verifica della sua efficacia. La sorte degli italiani in Gran Bretagna non è una semplice questione di valutazione di costi-benefici. Si tratta piuttosto di prendere posizione a favore di una società globale, aperta alla diversità e alla mobilità, difendendo coloro che questo ideale incarnano e promuovono ogni giorno. Questa scelta implica opporsi alla logica che ora guida Westminster e scuotere Bruxelles dal proprio torpore. Non è retorica, ma un appello per un New Deal tra l’Italia e gli italiani nel mondo. E’ l’occasione per accantonare il dibattito sui cervelli in fuga e per mettere a punto un strategia che connetta l’Italia a tutti i talenti nel mondo, nostrani e stranieri.

 

Tanto per cominciare si dovrebbero trasformare le ambasciate e i centri culturali in una rete di supporto per i talenti italiani nel mondo. Nella mia esperienza internazionale ho riscontrato che i funzionari si attengono ai propri compiti istituzionali o rispondono alle richieste delle lobby nazionali. Invece ogni italiano è una risorsa e le istituzioni all’estero dovrebbero adoperarsi per massimizzarne il potenziale. In realtà questo già succede quando gli individui che lavorono nelle istituzioni condividono questa visione. L’ambasciata d’Italia a Londra è un caso esemplare. Questo però non basta. Il compito andrebbe condiviso con tutte le altre rappresentanze istituzionali e private. Sempre a Londra, l’ufficio di Banca d’Italia non è da meno dell’ambasciata nell’animare la comunità italiana e, lavorando insieme, moltiplicano il proprio impatto. Così era il caso del centro culturale a Bruxelles quando lo guidava Federiga Bindi.

 

Sostenere gli italiani all’estero è soltanto il primo passo. Bisogna anche promuovere la loro mobilità. Mi ha colpito il concorso per la direzione dei maggiori musei italiani che il ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, ha voluto aprire a chiunque avesse i requisiti richiesti. Il ministro è stato contestato dai soliti tromboni d’antiquariato, ma ha fatto la scelta giusta. Aggiungerei di più. L’Italia ha bisogno di smantellare le barriere che bloccano la mobilità nel mercato del lavoro e la competizione. I monopoli locali presidiati da un’élite inadeguata a competere sul merito sono un freno allo sviluppo del paese e un danno per tutti i cittadini. Mancano piattaforme che promuovono i talenti nel mondo. La Gran Bretagna spende 150 milioni di sterline all’anno per sostenere la rete globale del British Council che promuove l’imprenditorialità, l’innovazione e la creatività del paese. In Germania, la Fondazione Bmw svolge una simile funzione finanziando un network per “Responsible Leadership” che conta migliaia di associati in tutto il mondo. In Italia chi lo fa? L’Italia deve creare nuovi tipi di relazioni con i talenti ovunque essi siano, ripensando in modo originale quello che può offrire. Suonerà come una proposta singolare ma mi domando, ad esempio, perché non offrire il Servizio sanitario italiano a chiunque cerchi alta qualità insieme alla sua rinomata umanità? Centinaia di migliaia di italiani a Londra preferirebbero essere curati in Italia piuttosto che finire nelle maglie del National Health Service. Ora che si aprono le trattative per la Brexit l’opzione per gli italiani di pagare le tasse per il Servizio sanitario alla Repubblica piuttosto che alla Corona dovrebbe essere sul tavolo.

 

Infine resta la sfida di dare una possibilità ai talenti italiani di cimentarsi anche nel proprio paese. Viviamo in un mondo globale in cui tutti i paesi competono per i talenti. L’amor patrio non è sufficiente. L’Italia deve diventare più competitiva. Bisogna mettere in discussione l’interpretazione istituzionale di “talento” che ancora si limita a titoli accademici e professionali. Sono i risultati ottenuti sul campo che definiscono il talento, non le patenti di nobiltà. L’Italia è ricca di beni e risorse. Bisogna metterli a valore mettendoli a disposizione di un’imprenditorialità diffusa. Servono nuovi investimenti e player internazionali per diversificare il mercato. I grandi progetti di rigenerazione urbana come l’area Expo e Bagnoli potrebbero diventare attrattori di imprese e innovatori cominciando con l’offrire un regime fiscale eccezionale. Ancora una volta si dovrebbe sfruttare l’opportunità di Brexit e fare shopping di quegli imprenditori e imprese – non solo italiani – che non vogliono perdere l’accesso al mercato unico e aspirano a operare in un contesto in cui chiunque possa sentirsi un cittadino a pieno titolo, contribuendo non solo alla costruzione di una società più ricca, ma anche a quella di una società più giusta e solidale. A questi l’Italia potrebbe offrire una nuova casa. Sarebbe anche un’opportunità per il paese di farsi una overdose di innovazione cominciando con nuove forme di imprenditorialità come quelle del fintech e dell’impact investing. Queste mie considerazioni potranno apparire dissonanti dagli umori che agitano l’Italia in questi giorni, ma riflettono i pensieri delle centinaia di migliaia di italiani che vivono in Gran Bretagna e dei milioni che vivono nel resto del mondo.

 

Filippo Addarii è Fondatore e direttore di PlusValue

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