Il giacimento kazako di Kashagan

La parabola dell'Eni (e dalla diplomazia italiana) vista attraverso il Kashagan

Gabriele Moccia
Il mitico giacimento kazako è entrato in produzione. Per l'ad Descalzi ci saranno benefici per l'azienda più che per il prezzo del petrolio

Roma. L'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi, ha detto che il recente avvio della produzione del giacimento di Kashagan in Kazakhstan non avrà un impatto importante per i prezzi petroliferi ma lo avrà sulle casse della compagnia italiana.  "Il discorso di Kashagan e' gia' digerito nelle valutazioni dell'Opec. Per l'Eni, invece, cambia molto piu' che per l'Opec. Avremo tra due-tre-quattro anni una grande produzione di cassa", ha detto De Scalzi a margine della consegna degli Eni Award.

 

Il Kashagan è entrato finalmente in produzione la settimana scorsa, un progetto lungo decenni. Correva infatti l’anno 1983 quando uno dei più visionari petrolieri americani, Jack J. Grynberg, portò per la prima volta Nursultan Nazarbayev, all’epoca capo del partito comunista kazako, a visitare i giacimenti di greggio del lago Maracaibo, in Venezuela. In quei giorni il padre padrone del Kazakistan intuì la forza dirompente della geopolitica del petrolio, l’occasione per sganciarsi definitivamente dall’orbita di un Unione sovietica ormai al crepuscolo. Da qui parte l’epopea per lo sfruttamento di Kashagan, il giacimento che forse più di tutti racchiude la vera essenza della corsa al petrolio: la leva energetica per orientare la politica internazionale e guerre senza esclusione di colpi tra le multinazionali petrolifere.

 

Che si parli delle petromonarchie incastonante nel Golfo Persico o del destino dei paesi che si affacciano sul mar Caspio, poco cambia. In questi giorni, dopo quasi mezzo secolo di battaglie contro le leggi della geofisica (l’acido solfidrico che si trova nei gas delle profondità marine del Caspio è stato l’incubo di ogni ingegnere che ha lavorato al progetto), ritardi infiniti e burocrazia locale, il consorzio internazionale che gestisce il mega giacimento – il North Caspian Sea Production Sharing Agreement - di Kashagan ha per la prima volta dato al Kazakistan e a Nazarbayev i primi tanto attesi frutti. Gli impianti di trattamento a terra del campo hanno stoccato e fatto partire il primo lotto di greggio destinato all’esportazione sui mercati internazionali. L’obiettivo è quello di raggiungere una produzione di 180 mila barili al giorno, una sfida forse troppo ambiziosa, come sostengono gli analisti di Wood Mackenzie secondo cui la produzione non andrà oltre i 154 mila barili giornalieri. Sono cifre comunque curiose se si guarda agli entusiastici dispacci del 2003, quando i manager del consorzio annunciavano un obiettivo di produzione di 1,2 milioni di barili al giorno.

 

Del resto è impossibile non pensare a Kashagan come un progetto energetico ‘sfortunato’, come è impossibile non  pensare al groviglio di interessi che hanno vi hanno ruotato intorno. Quelli delle varie amministrazioni americane che si sono succedute, ma in particolare quella di George Bush, per rafforzare la posizione geopolitica degli Stati Uniti tutt'attorno al Caspio come sostiene Ariel Cohen, del think-tank conservatore Heritage Foundation. Quelli del Cremlino per far nascere un’alleanza del petrolio russo-kazaka (mai realmente decollata in pieno) e orientare la fitta rete di oleodotti dell’Asia Centrale. Anche le grandi compagnie petrolifere hanno giocato la loro partita sul complicato scacchiere di Kashagan. In casa Eni, in particolare, parlare di Kashagan significa parlare del passato, del presente e del futuro, almeno quello prossimo, del gruppo italiano. Sul giacimento kazako si sono districati i destini degli ultimi tre amministratori delegati. Mincato, Scaroni e Claudio Descalzi, ma anche quelli di altri importanti manager come Stefano Cao, ora alla guida di Saipem. Ad Astana, poi, il Cane a Sei Zampe ha vissuto la sfida matteiana di mettere sotto scacco le altre big oil companies: lo scontro per ottenere l’operatorship, ovvero la guida sulle sorti di quello che all’epoca era considerato il progetto petrolifero più grande del mondo. Un lavoro complicato.

 

Di mezzo c’era il peso politico dell’azionista di maggioranza, il governo kazako, le rivalità tra le sorelle angloamericane, Exxon, Shell e la Conoco; il doppiogiochismo dei francesi della Total. Una fonte che conosce bene il dossier Kashagan racconta al Foglio come si arrivò alla fine a scegliere l’Eni. In una delle votazioni finali del consorzio che richiedeva l’unanimità la prima scelta, quella della Total, fu bocciata. Anche la seconda per mettere a capo del progetto gli americani della Exxon si risolse in un nulla di fatto. Alla fine gli unici in grado di fornire la necessaria garanzia d’indipendenza erano gli italiani, soprattutto agli occhi dei kazaki, racconta la fonte. Un vero successo di diplomazia economica del nostro paese che troppo spesso viene dimenticato per fare spazio alle narrazioni manettare.

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