Bernardo Caprotti, era presidente della catena di supermercati Esselunga

ArciCaprotti

Salvatore Merlo
“La mia azienda può diventare una Coop. Questo non deve succedere”. Non un semplice testamento, ma il manifesto ideologico di un’intera e grande vita da italiano antitaliano – di Salvatore Merlo

Le Coop rosse, i tic italiani e “i pessimi tempi”, l’aborrita morale cattocomunista, il paese in cui non si possono fare gli affari, che scoraggia il successo, e poi i figli divorati (che divorano), gli umori, i giudizi, le prescrizioni ai posteri, e ancora di nuovo le Coop cui lui dedicò un libro controverso e processato, citate due volte, quasi un’ossessione per il nemico, per la concorrenza secondo lui sleale, fino all’ultimo istante: “La mia azienda può diventare una Coop. Questo non deve succedere”. E pensare che Voltaire, logico e divertito fino alle sue ultime parole, invece si rivolse così al prete che volteggiava sul suo letto di morente esortandolo a rifiutare l’anticristo: “Ma le pare il momento di farsi dei nemici?”.

 

Se avesse potuto, sarebbe entrato a cavallo nella sua Esselunga, come un personaggio di Verga, ma Bernardo Caprotti non era il Mazzarò della roba, ha diviso ogni cosa, punito persino i suoi eredi, lasciato giudizi ed emesso sentenze, mentre l’altro, il personaggio verghiano, “quando gli dissero che era tempo di lasciare la roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anatre e i suoi tacchini, e strillava: ‘Roba mia, vienitene con me’”. E allora davvero c’è qualcosa di sorprendente, e di unico, in questo testamento dell’introverso e scorbutico inventore dei supermercati in Italia, l’uomo che si fece milionario nel Boom degli anni Cinquanta associandosi con Rockefeller e intuendo la società dei consumi di massa. E non solo perché questo testo di 13 pagine, quest’arma dell’ultima volontà, è da giovedì consultabile su internet, ma perché sembra proprio inteso per essere divulgato, con il suo passo provocatorio, quasi un manifesto ideologico e classicamente antitaliano: “Esselunga è una società ‘attrattiva’. Però è a rischio. Questo paese cattolico non tollera il successo”.

 

E in ogni riga si riconosce il metodo, l’accuratezza di dettaglio, quella quasi assoluta asetticità che erano i cardini sicuri del fascino burbero di Caprotti, fondato su un’etica quasi calvinista, weberiana del libero arbitrio, del rapporto diretto e personale con un Dio degli affari che mai s’intrufola nei labirinti della politica, o degli affetti privati: né sangue né urla né sentimenti, ma anzi l’idea di famiglia che si rovescia in una trappola, che si trasfigura in familismo e che viene dunque respinta: “Famiglia non ci sarà. Ma almeno non ci saranno lotte. O saranno inutili”, nel paese in cui invece le fabbriche chiudono quando passano agli eredi protetti; nel paese in cui le eredità sono sempre una lite, e in cui persino la fortuna di Giuseppe Verdi è ancora giudiziariamente contesa da ben quattro eredi, a centosedici anni dalla morte.

 

A Caprotti dell’Italia non piacevano la palude e la doppiezza, anche quella virtuosa, che nel nostro paese si fa politica e persino morale, da Machiavelli a Togliatti, dalle convergenze parallele alla politica dei due forni, lo “svolazzo di contorsioni”. Amava il mercato libero, il dinamismo sociale, la velocità finanziaria, le situazioni nette. Così, in questo suo singolare manifesto-testamento, a un certo punto avverte, con scetticismo nei confronti del sistema economico semiliberale, che la sua società “è privata, italiana, soggetta ad attacchi”. Esposta, dunque, perché priva di quelle protezioni politiche che lui imputava invece ai concorrenti, amici della sinistra: e se infatti Caprotti fu amico di Bersani, lo fu solo perché l’ex ministro aveva fatto le liberalizzazioni. Era così ideologico da non vedere bandiere, né partiti, Caprotti. E d’altra parte un’anima protestante, insegnano i padri calvinisti, ha maggiori possibilità di guadagnarsi il paradiso facendo affari con i cattolici piuttosto che convertendoli.

 

“La preparazione alla morte dura una vita intera”, scriveva Alda Merini. Morire sì, certo, ma morire come? Come si è vissuto, con un colpo di scena severo e umorale, interpretando cioè il proprio testamento come il teatro perfetto per calare il sipario, l’ultima possibilità di esserci, di determinare. E dunque i quadri, quell’olio di Manet lasciato al Louvre (“con l’onere che venga esposto accanto al Tiziano originale”) in polemica con la musealizzazione dell’arte in Italia, e poi la sua azienda, la sua creatura “per la quale auspico un alleato o un compratore all’estero”. Infine il silenzio, la compostezza di un funerale “che sia al mattino, il più presto possibile, onde non disturbare il prossimo”. Con la preghiera che non siano fatti annunci o necrologi, “sarebbero paginate di fornitori cortigiani”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.