Il presidente della Bce Mario Draghi (foto LaPresse)

Processo all'Eurotower

Così Draghi respinge le critiche dei politici tedeschi (e di Schäuble)

Alberto Brambilla
La Bce sotto attacco ricorda ai tedeschi di essere beneficiari netti del Qe. La via per nuovi stimoli si fa più ripida. L’antico spettro di Szechuan.

Roma. A quattro anni dalla sua ultima visita al Bundestag nel pieno della crisi dell’eurodebito, ieri Mario Draghi è tornato a rispondere ai parlamentari tedeschi preoccupati che la politica monetaria iper espansiva della Banca centrale europea, inaugurata nel marzo 2015, colpisca i risparmiatori, indebolisca le banche e contribuisca a dare carburante ai movimenti populisti che insidiano i partiti tradizionali.

 

Draghi, durante un dibattito di novanta minuti a porte chiuse, ha difeso con vigore, come riportato da Bloomberg, le aggressive politiche espansive della Bce dicendo che hanno “fatto risparmiare (alla Germania) solo nel 2015 circa 28 miliardi di euro sotto forma di minori tassi d’interesse”. Draghi è stato comunque costretto a tenersi sulla difensiva e ha ripetuto ancora che tocca ai governi approfittare degli stimoli della Bce approvando riforme strutturali o, nel caso della Germania, usando l’attivo di bilancio per spesa in infrastrutture. Berlino, infatti, non era probabilmente lo scenario adatto per preparare l’establishment tedesco a nuovi e più potenti stimoli futuri che la stentata crescita dell’Eurozona e il rischio recessione in Francia e in Italia imporranno. Il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, aveva ordinato alle sue truppe alla Dieta federale di cannoneggiare il banchiere centrale come lui d’altronde fa già da tempo. Schäuble,  esponente di spicco del governo Merkel, nel ruolo di poliziotto cattivo, è stato molto critico dell’impatto negativo dei tassi bassi sui profitti di banche e di fondi pensione e aveva accusato la Bce di aiutare il  partito populista di Alternative Fur Deutschland. 

 

Al fondo del dissidio tra Berlino e l’Eurotower c’è la disfunzionale costruzione dell’euro per cui politiche preferibili per l’intera area possono non essere adatte per un paese come la Germania. L’inflazione tedesca è infatti spinta in parte dall’azione della Bce e i tedeschi non si sentono a loro agio. Per come l’ha raccontata Handelsblatt lunedì, l’indipendenza della Bce può essere messa in discussione da una deriva che induce a privilegiare le esigenze dei paesi periferici, fino ad accarezzare l’idea di derogare alla regola del “capital key” che è basata su dimensione e peso economico degli stati membri e che determina la quantità di titoli pubblici che la Bce può comprare da ognuno. La politicizzazione dell’azione dell’autorità monetaria comporta rischi di iperinflazione.

 

Un esempio antico, meno abusato di Weimar, arriva dal Medioevo cinese. Il governo di Szechuan è stato uno dei primi a stampare moneta cartacea nel X secolo. La banconota Jiaozi apparve a Chengdu, la capitale del regno nel centro della Cina: permetteva transazioni cospicue a differenza della moneta metallica. Agli albori di tale innovazione c’era una disciplina rigida riguardo la quantità di moneta che poteva circolare, limitata a cicli triennali di espansione. Tuttavia, come racconta Paul Donovan, economista di Ubs in “The truth about inflation” (Routledge, 2015), nel 1072 i politici cinesi ruppero le regole che si erano auto imposti per espandere l’offerta di moneta assecondando la domanda, e i prezzi schizzarono. Entro il 1200 la quantità di moneta era cresciuta tanto da rendere le banconote prive di valore e di conseguenza non vennero più accettate. Fu la fine per la dinastia Szechuan. Identico destino capitò per lo stesso errore ai Sung, ai Chin e agli invasori Mongoli. Gli economisti Bce sanno di certo evitarlo, purché la storia sia maestra.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.