Matteo Renzi interviene a Milano al piano nazionale industria 4.0 (foto LaPresse)

Più investimenti e meno dirigismo, per l'Industria 4.0 può essere una svolta

Francesco Seghezzi
Prima che il governo parlasse a Milano, a Roma Federmeccanica ha presentato un’indagine che fotografa un’Italia spaccata a metà tra chi conosce le nuove tecnologie e chi invece non conosce, non utilizza e non è interessato ad investire.

Un vero passo avanti sull’Industria 4.0 e la fine delle politiche industriali dirigiste. Due novità non da poco quelle emerse mercoledì 21 settembre, quando cui Matteo Renzi ha presentato il piano italiano per la manifattura digitale. Un piano che si fonda su forti investimenti alle imprese, seguendo una logica di mercato che scommette sulla fiducia nei confronti dell’industria. In poche parole non esisteranno bandi o tecnologie specifiche nelle quali investire per poter accedere ai fondi, ma saranno le imprese stesse a decidere su cosa puntare. Gli investimenti saranno automatici, se si investe in tecnologie sbagliate sarà l’impresa a pagarne il prezzo in futuro in perdita di competitività. Si tratta di una novità che abbandona la politica industriale italiana spesso caratterizzata dal dirigismo. A fianco alle imprese un ruolo fondamentale lo avranno le università, con alcune eccellenze individuate dal governo per sviluppare tecnologie e progetti di ricerca creando reti attraverso Digital innovation hubs sui temi di Industria 4.0. Verranno anche potenziati alcuni strumenti come il nuovo iper ammortamento al 250 per cento e il Fondo di garanzia e verranno ampliati i finanziamenti agli Istituti tecnici superiori e ai dottorati sui temi della manifattura digitale.

 

E proprio nel giorno in cui qualcosa inizia a muoversi, dopo oltre un anno e mezzo di attesa e in netto ritardo rispetto a molti paesi europei, siamo in grado di avere un quadro più chiaro rispetto a quanto è digitale la manifattura italiana. Prima che il governo parlasse a Milano, infatti, a Roma Federmeccanica ha presentato un’ampia indagine che ha coinvolto oltre 500 imprese sull’Industria 4.0. Il quadro è di un’Italia a luci e ombre e spaccata a metà tra chi conosce le nuove tecnologie, in parte le utilizza e vuole investire e chi invece non conosce, non utilizza e non è interessato ad investire. Il 64 per cento delle imprese intervistate utilizza almeno una delle undici tecnologie di Industria 4.0 (Internet of things, Big data, Cybersecurity, ecc.) ma ancora pochi ne fanno un uso integrato. Chi le utilizza presenta livelli più alti di laureati, rapporti con le università, investimenti in ricerca e sviluppo. In generale la conoscenza delle tecnologie è buona per quanto riguarda elementi da tempo presenti nelle imprese italiane, ma più bassa nei confronti di quelle tecnologie che più caratterizzano la Quarta rivoluzione industriale, ad esempio solo il 55 per cento conosce la cosiddetta Internet delle cose. Sul capitolo investimenti si capisce l’urgenza del piano del governo, infatti circa il 50 per cento delle imprese non ha ad oggi intenzione di investire in nuove tecnologie 4.0. In ultimo, tra i tanti dati della ricca e utile indagine, le competenze, che stanno cambiando per chi introduce queste tecnologie, ma che mostrano come l’impatto soprattutto sugli operai sia ancora basso, si parla di 1,57 in una scala da 0 a 4.

 

Si aprono dunque almeno due sfide, oltre a quella di concretizzare quanto annunciato, per il governo e per le parti sociali. La prima è conoscitiva, è necessario aiutare le imprese a conoscere queste tecnologie, è questo il vero ruolo sussidiario che può avere lo stato, in particolare fornendo gli strumenti affinché il nostro sistema di pmi possa costruire un ecosistema con gli attori che possono aiutarle. In mancanza di questo gli investimenti rischiano di non essere utilizzati o di diventare un volano per fallimenti di mercato di cui certo il governo non ha responsabilità ma che possono trainare al ribasso il sistema. Seconda sfida è quella del lavoro, che è poi una cartina tornasole dell’effettivo cambiamento in atto. Se non vi sarà un vero impatto sulle competenze dei lavoratori, nell’ottica di quel piano di alfabetizzazione digitale proposto nel ddl Sacconi sul lavoro agile in questi giorni al Senato, e sull’organizzazione del lavoro significa che l’impatto è ancora debole e che si confonde ancora il 4.0 con modelli degli anni 80-90. Oltre a questo, l’investimento in competenze è l’unico modo per far sì che nuove tecnologie non comportino unicamente un calo degli occupati ma una vera trasformazione del lavoro che anzi, con aumenti di produttività possa portare ad una crescita della domanda e quindi di occupazione. Su questo anche il ruolo delle parti sociali è fondamentale, perché nuove relazioni industriali, più ancorate alle realtà aziendali e territoriali sono la chiave per una vera partecipazione dei lavoratori, essenziale per la struttura organizzativa 4.0.

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