Dalle liberalizzazioni alle imposte. Quel programma incompiuto che piace agli italiani

Renzo Rosati
Sondaggio dopo sondaggio, le tasse rimangono l’ossessione degli italiani. Ascoltarli, no?

Roma. “Un programma politico liberale e popolare”, ha detto ieri Stefano Parisi, manager candidato sindaco a Milano per il centrodestra dove è stato battuto di misura da Giuseppe Sala, lanciando in un’intervista l’idea di una possibile convention a settembre. “Liberale e popolare”? Per una volta sarebbe più facile a farsi che a dirsi. Partendo, per esempio, da liberalizzazioni e tasse. Perché tutti ne dicono bene, a parole, ma poi gli italiani si devono spesso accontentare di briciole. Si prenda la concorrenza. Due rinvii in poche ore per il disegno di legge sulla Concorrenza, all’esame del Senato. Mercoledì l’approdo in Aula è slittato a settembre, ieri la conclusione dei lavori in commissione Industria è stata posticipata a martedì 26. Proprio al Foglio il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, che già considera il testo un compromesso al ribasso, aveva appena dichiarato di augurarsi almeno l’approvazione definitiva entro agosto. Nulla, per un testo varato dal Consiglio dei ministri 500 giorni fa. Motivo occasionale, stavolta, le fibrillazioni dell’area centrista della maggioranza. Dunque il Movimento 5 stelle definisce la vicenda inaccettabile, accusa il governo di essere “schiavo delle lobby”. Un po’ bizzarro visto che mercoledì il candidato premier grillino Luigi Di Maio ha incontrato a Palazzo Firenze, una sede istituzionale vicino a Montecitorio, i lobbisti dichiarati delle maggiori imprese e associazioni operanti in Italia, dall’Enel a Vodafone alla Confindustria.

 

Iniziativa lodevole di per sé, visto che il M5s considerava le lobby, che quando agiscono allo scoperto sono tipiche delle democrazie, “una mala pianta da scacciare dal Parlamento”. Ma dietro a tutto questo polverone e chiacchiere che cosa c’è? C’è il sostanziale, o forse assoluto, disinteresse per gli interessi per i benefici – quei “cittadini” dei quali ci si riempie la bocca, grillini in testa – a favore di gruppi elettorali organizzati sui quali si potrebbe ormai scrivere un romanzo, e che di volta in volta si offrono alla sinistra, alla destra e ora molto ai 5 stelle, da tutti ricambiati. I mitici tassisti romani hanno contribuito all’elezione, e poi alla caduta, di Gianni Alemanno, Ignazio Marino e Virginia Raggi. Quest’ultima ha detto in lungo e in largo che a Roma non ci sarà mai spazio per Uber, neppure nella forma ridicola (una circolare in centro attuata dai tassisti) escogitata per il Giubileo. Egualmente a Milano Uber può utilizzare solo le auto a noleggio, le Ncc, a condizione che ogni volta gli autisti tornino alla base. A Roma la Raggi ha rassicurato ampiamente il formidabile serbatoio dei 70 mila dipendenti capitolini annunciando il no a ogni forma di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi. Perfino per l’Acea, azienda quotata che il Campidoglio controlla con la maggioranza assoluta, quando il Tesoro ha il 23,5 per cento dell’Enel. Il socialismo municipale a 5 stelle, ovviamente declinato in nome del bene comune e dell’onestà, certo non scagiona gli altri, dal centrodestra alla ricerca di un liberismo in stile milanese per ora sulla carta, al renzismo che non riesce a far passare una legge sulla quale ha messo più volte la faccia, che ora sarà piena di lividi.

 

Eppure Renzi è lo stesso che nel suo periodo d’oro si dichiarava “entusiasta di Uber” sperimentato a Manhattan con risparmio di tempo e soldi. Eppure il centrodestra futuribile, da Giovanni Toti in Liguria a Stefano Parisi a Milano, ha alle spalle battaglie vincenti di liberalizzazioni e concorrenza dalle trincee di Mediaset a quelle della Confindustria. Che fine hanno fatto? Stessa sorte per le promesse di taglio delle tasse. Non c’è talk show, e ora che questi sono in declino non c’è allarme istituzionale quotidiano, che non riguardi “emergenze” tipo povertà, legalità, intercettazioni, trivelle, spiagge in concessione, per non dire del tormentone degli esodati. Ma se si vanno a vedere i sondaggi non sono affatto queste le priorità. Come rileva il sito anti luoghi comuni capiredavverolacrisi.com, “meno tasse, meno tasse, meno tasse, ecco la sana ossessione degli italiani”.

 

Così il 10 luglio un sondaggio Swg per il Messaggero rivela che oltre un italiano su tre invoca “uno choc fiscale, e che questo dovrebbe essere il tema dominante dell’agenda di governo”. A giugno lo stesso istituto triestino aveva effettuato un sondaggio analogo per il Corriere della Sera, ricavando un risultato simile: il taglio delle tasse supera come importanza l’argomento lavoro (con il 56 per cento) e di gran lunga la questione pensioni. Già a fine maggio, in un altro sondaggio realizzato da Ipsos Srl, gli intervistati sostenevano che “il tema da affrontare con più urgenza in Italia” è l’occupazione (53 per cento), il fisco e le tasse (15 per cento) e poi le pensioni (10 per cento). E così via, al punto che l’ossessione antifiscalista quasi non fa più notizia. Tuttavia la concorrenza, che dai taxi alle farmacie ai notai ha ovviamente lo scopo di lasciare alle persone più soldi e più libertà di scelta (vedere alla voce telefonia mobile, dove la concorrenza esiste), così come i vagheggiati tagli fiscali, vantano il record di promesse disattese e di rinvii. Mentre il federalismo comunale e regionale d’accatto aumenta omeopaticamente le addizionali su cittadini e imprese anche e proprio per garantire le corporazioni anti-concorrenza. Materia per complottisti da prima serata, che però qui si squagliano.

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